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Cavolacci riscaldati

DUE ESEMPI DI SATIRE
IN LEOPARDI E IN PASCOLI

di Leonardo Tonini

Poiché da qualche tempo prendo diletto dalla poesia satirica e mi picco di scriverne anch’io, cerco notizie e riflessioni su questo genere, spesso bistrattato o messo in seconda fila, specie oggi che pare trionfare la lirica, benché il più delle volte declinata in senso puramente sentimentale. Ma la satira regge ai colpi del tempo: lo stesso Eugenio Montale intitolerà Satura la sua quarta opera, pubblicata in età matura, che da un lato riprende dalla satira l’impegno morale e uno sguardo più ampio, non più rivolto solo a sé stesso ma pure ai fatti del suo tempo, e dall’altro adotta un verseggiare più libero da schemi rigidi.


Voglio qui prendere in esame due vere e proprie satire di due poeti che nell’immaginario comune non sono visti come satirici, ma che nei due esempi proposti è fuor di dubbio che abbiano voluto omaggiare questa forma letteraria.


Il primo è Giacomo Leopardi, autore di amarissima ironia ma che in un componimento, la Palinodia al marchese Gino Capponi, si svela divertito osservatore della sua società e prende in giro il suo esser serio e non inserito nella comunità dei viventi. Già nel titolo, Palinodia, si intuisce l’intento satirico, basta però prendere in mano il testo per averne la prova.


    Errai, candido Gino; assai gran tempo,
    e di gran lunga errai. Misera e vana
    stimai la vita, e sovra l’altre insulsa
    la stagion ch’or si volge. Intolleranda
    parve, e fu, la mia lingua alla beata
    prole mortal, se dir si dee mortale
    l’uomo, o si può. Fra Meraviglia e sdegno,
    dall’Eden odorato in cui soggiorna,
    rise l’alta progenie, e me negletto
    disse, o mal venturoso, e di piaceri
    o incapace o inesperto, il proprio fato
    creder comune, e del mio mal consorte
    l’umana specie.


In quella che appare come una lettera in versi all’amico, Leopardi esordisce ammettendo lo sbaglio enorme e duraturo che lo portò a essere «insopportato» dai viventi e deriso dai grandi estinti, cioè l’aver creduto «comune» il proprio destino e tutta la specie umana «consorte» del suo malessere.

Nell’incipit si nota anche un altro ‘ingrediente satirico’: l’autoironia. È tipico di chi scrive satira prendersi in giro, iniziare il discorso da un’ammissione e palesar modestia. Il recanatese usa questo come espediente per poi rappresentare la realtà a lui contemporanea:


     [...] Alfin per entro il fumo

     De’ sígari onorato, al romorio

     De’ crepitanti pasticcini, al grido

     Militar, di gelati e di bevande

     Ordinator, fra le percosse tazze

     E i branditi cucchiai, viva rifulse

     Agli occhi miei la giornaliera luce

     Delle gazzette.


Sorprende – se si considera Leopardi solo attraverso una visione scolastica – che il poeta osservi così da vicino il mondo che lo circonda, nel cui «romore»


     [...] Riconobbi e vidi
    La pubblica letizia, e le dolcezze
    Del destino mortal. Vidi l’eccelso
    Stato e il valor delle terrene cose,
    E tutto fiori il corso umano, e vidi
    Come nulla quaggiù dispiace e dura.


Dopo un delizioso racconto di quelle che in altra sede chiamerà «magnifiche sorti e progressive», giunge alla (finta) contrizione:


     Profondamente, del mio grave, antico
    Errore, e di me stesso, ebbi vergogna.


Da questo punto in avanti, nei suoi 279 endecasillabi, è tutto un descrivere le bellezze e le fastosità del progresso anche se


     Emendar, mi cred’io, non può la lieta

     Nonadecima età più che potesse

     La decima o la nona, e non potranno

     Più di questa giammai l’età future.


E ironizza sulle eccelse menti del secolo che, «non potendo / Felice in terra far persona alcuna», si diedero a ricercare la formula per la felicità di tutti. E conclude con un finto elogio di questi «barbuti» che ignorano l’infelicità individuale e plaude alla fortuna dei giovani che crescono in una società inondata di tante chiacchiere e maestri con barbe «lunghe due spanne».

Insomma, se si era partiti con un po’ di ‘speranza’ su questo Leopardi, si finisce con un forte amaro in bocca per la spietata critica al positivismo dominante della sua epoca. Siamo nel 1835, al poeta resta poco da vivere.


Meno dura, meno amara, ma secondo me ugualmente efficace, risulta la celebre The hammerless gun di Giovanni Pascoli, pubblicata l’11 gennaio 1897 su «La Tribuna». Come è noto, l’ispirazione nacque da un regalo ricevuto per Natale nel 1896: un fucile senza cane, donatogli dall’amico Adolfo de Bosis. Sebbene l’interpretazione più diffusa parli di sensibilità del poeta che decide di non uccidere, evidenziando il contrasto tra l’intenzione iniziale di cacciare e la scelta finale di astenersi, la mia lettura è diversa. Molti indizi portano da un’altra parte, appunto a considerare il componimento come una vera e propria satira moderna. Pensiamo all’esaltazione dei dettagli tecnici dell’arma presso i contadini («Un hammerless! Sapete? / che non ha cani: a triplice chiusura») e all’uso dell’ironia verso sé stesso («lo vedrete il maestro di latino! / sì, lo vedrete il pedagogo imbelle!»)... Ironia che troviamo anche nel finale quando il poeta, ormai convinto di non essere un cacciatore, decide di far ritorno a casa:


     [...] E dopo? – Dopo? Impugno

     l’hammerless e... ritorno via. Si rischia

     d’infreddare: gennaio non è giugno.


Ma c’è di più. Gli uccelli parlano al poeta che si sente cacciatore ed è intenzionato a portare sterminio solo per dimostrare il suo valore.


     Il pittiere:

     Tin tin! anche te? che c’invidi

     due pippoli e due gremignoli?


     L’allodola:

     Te rode una cura segreta;

     tu cerchi l’oblìo de’ tuoi mali.

     Ma sei come tutti, o poeta?


L’intero poemetto è una passeggiata mattutina all’ombra del monte Pania che sovrasta la Versilia. Monte citato in apertura e in chiusura. Uccelli che parlano ai poeti? Monte Pania? Anche senza aver letto i libri di Monica Ferrando, si capisce che sono chiari riferimenti alla poesia arcadica o bucolica, dominata da un sentimento ‘panico’ verso la natura come modello politico di alternativa al dominio tecnologico rappresentato dal fucile inglese. Ed è quasi inutile dire che la satira è appunto una faccenda di satiri, cioè del dio dei boschi Pan, detto Pane in italiano antico. Il poeta sapeva che l’origine del nome Pania è altra (lo dichiara anche Dante nella Commedia, Inf. XXXII), ma ci sarebbe da dubitare che il Pascoli non abbia visto queste corrispondenze. Il monte che sovrasta la Versilia e la casa del poeta a Castelvecchio diventa, quindi, un nuovo Elicona o un nuovo Parnaso.


Ci sono ancora due aspetti da considerare riguardo alla forma. Leopardi si rifà a Orazio, non tanto alle Satire quanto probabilmente all’Epodo 17, che è a sua volta una palinodia, ovvero una ritrattazione di quanto detto in precedenza. Lo stesso termine greco palinodia significa letteralmente ‘canto opposto, al contrario’. Anche la scelta di impiegare esclusivamente endecasillabi richiama la satira oraziana, caratterizzata dall’uso di un unico metro, l’esametro.

Per Pascoli, invece, occorre risalire a un modello ancora più antico. The hammerless gun – strutturato in madrigali, dodici per l’esattezza, ciascuno composto da una quartina e due terzine (ABA CBC DEDE), con una chiusa finale di due versi – contiene al suo interno un inno al sacro monte Pania: «Tu pascoli le api, o gigante», citazione esplicita da Virgilio, poeta delle Georgiche e delle Bucoliche.

La poesia si configura come satura anche per il linguaggio misto, che alterna italiano, dialetto garfagnino e inglese, anticipando componimenti successivi come il poemetto Italy del 1904. Inoltre, Pascoli scrisse negli stessi anni anche testi in latino che esplorano artisticamente questa modalità compositiva. Infine – e forse è l’elemento più significativo – l’innesto di novenari conferisce al testo la natura di un vero e proprio polimetro, richiamando le satire pre-oraziane.



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Immagine di copertina: James Ensor, Scheletri che lottano per un impiccato, 1891


20/03/2025

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