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Fuoricampo

BAUDELAIRE,
LO “SPLEEN” E L’OSSESSIONE
PER GLI OCCHI

di Luigi Mattioli

Come osserva Gesualdo Bufalino nella sua magistrale prefazione del 1983, Les Fleurs du Mal rappresenta «lo sforzo di promuovere la sofferenza a parola e di estrarre dalla coscienza del Male la rare fleur della poesia».

Le ricorrenti ambivalenze del pensiero di Baudelaire, sublimate nei pur rigidi canoni formali della poetica del tempo [1], esplodono in ambiziose allegorie, in figure divine o mostruose, in richiami alla mitologia classica che danno forma al tormento interiore di un uomo perennemente inquieto.

Bene e male, amore e ribrezzo, bello e brutto, elegante e volgare, ricco e povero. Baudelaire non trova mai una sintesi, né vuol fare una ‘scelta di campo’ tra le proprie opposte pulsioni.

A un lettore poco attrezzato, tuttavia, i Fleurs rischiano di restituire un’esperienza fin troppo inebriante, nella quale è difficile mantenere una sufficiente lucidità di analisi. Metrica e rima sorprendono, stordiscono, mentre le parole danno forma a un mondo quasi onirico, sospeso tra spirito e corpo, tra profumi sublimi e odore di morte, tra voluttà e dolore.


Nello Spleen di Parigi il medesimo tormento si ripete, ma con la prosa (poetica) Baudelaire sembra condurci con più calma – si potrebbe dire ‘sobrietà’, benché il termine non possa essergli accostato così alla leggera – nel suo viaggio interiore alla ricerca di una sintesi che resterà comunque una chimera. Qualcuno lo definì «scrittore bifronte», prigioniero delle sue stesse contraddizioni tanto nei versi quanto nei racconti in prosa.

Eppure, a parere di chi scrive, è nello Spleen che emerge tutta l’energia intellettuale del francese, non più ingabbiato nella perfezione del verso ma finalmente libero di dipingere, con pennellate da maestro, la Parigi del XIX secolo. È nello Spleen che la verve poetica di Baudelaire, tutt’altro che sopita o banalizzata nella prosa, ma al contrario conservata intatta, plasma il superbo flâneur che guarda, irride, ama e disprezza la società del tempo.


Charles è un grandioso osservatore critico, che ha il privilegio di frequentare la borghesia parigina e al tempo stesso farsi incantare dai personaggi più sordidi e meschini, rinunciando peraltro a stabilire precise scale di valori. Di qui, se vogliamo, la centralità degli occhi in quasi tutti i suoi racconti.

Les yeux, dunque. Nello Spleen superano le ottanta ricorrenze (compreso il singolare œil): nei Fleurs compaiono oltre cento volte, ma si tratta di un’opera ben più voluminosa.

Sembra un’ossessione, che merita un’analisi più approfondita.


In primo luogo, gli occhi per Baudelaire sono strumento ineludibile per fare esperienza della realtà. Anche laddove il poeta si avventura in racconti allegorici o propone considerazioni di natura etica o comunque astratta, il punto di partenza è sempre l’approccio sensoriale. Vista e olfatto la fanno da padroni: essi immergono l’autore e il lettore nella società (si badi bene, non nel paesaggio, che resta sempre ai margini della narrazione) per scandagliarne i vizi e le virtù, le bellezze più sublimi e i più squallidi abissi. Lo Spleen è un vero diario intimo e vissuto, non un semplice repertorio di allegorie. Gli occhi, in particolare, permettono al poeta di bighellonare tra la folla, di essere flâneur, «visionario colmo di passione».

Il poeta – scrive nel brevissimo Les Foules (Le folle) – «gode dell’incomparabile privilegio di poter essere, a piacimento, se stesso e un altro [...] e se certi luoghi sembrano essergli preclusi, è che ai suoi occhi non valgono la pena di essere visitati» .


Non sono gli occhi dell’osservatore, tuttavia, i veri protagonisti dello Spleen di Parigi. Les yeux sono la vera chiave di decrittazione dell’animo altrui, sono il portale attraverso il quale Baudelaire entra negli uomini e nelle donne che incontra, cogliendone la più intima linfa vitale.

Una parte per il tutto, dunque: gli occhi rivelano in un solo istante l’intero ‘essere’ del prossimo, lo mettono a nudo, lo sondano in profondità rendendo quasi superfluo ogni altro tentativo di introspezione. Troviamo allora occhi che non sono semplicemente azzurri, o vitrei, o dolci: no, essi sono specchi, sono grida, sono macchine della verità, sono pozzi neri.


In La Chambre double (La camera doppia), in una languida rȇverie che è poi un topos della poetica baudelairiana, il primo particolare che rivela la presenza della donna dei sogni sono proprio gli occhi, che si presentano come terribili specchietti (mirettes) che attirano, soggiogano, divorano. E non ve ne sono altri, se non il profumo. Come nei Fleurs, del resto, anche nello Spleen la figura femminile è simbolo ambivalente di bellezza e malvagità, sensualità e spregevolezza, nudità svelata e mistero impenetrabile; e sono sempre i suoi occhi il vero oggetto di interesse, ma anche il primo segnale di pericolo. «I suoi occhi sono due antri in cui vaga e lampeggia il mistero. Il suo sguardo illumina come il lampo: è un’esplosione nelle tenebre» (Le desir de pȇindre – Il desiderio di dipingere). Gli occhi di tal Benedicta «spandevano il desiderio della grandezza» e anche in questo caso il poeta non fornisce altri elementi di descrizione fisica, come in La soupe et les nuages (La zuppa e le nuvole) dove l’amata è un piccolo folle mostro dagli occhi verdi e null’altro.


Ovunque si avventuri il nostro flâneur, l’attenzione per les yeux resta costante. In generale, dove la società parigina disvela la propria essenza sordida e decadente, è più forte l’impatto tra lo sguardo del poeta e quello dei suoi bizzarri personaggi.

Gli occhi del timido si abbassano (La mauvais vitrier – Il cattivo vetraio). Quelli dei gatti addirittura consentono di leggervi l’ora, quelli dei cani bastonati sono lacrimosi. Anche quelli del buffone di corte lacrimano, e addirittura «dicono», cioè dichiarano il dolore dell’ultimo degli umani di fronte allo sguardo di marmo di una Venere indifferente e implacabile. Quelli del bambino affamato in Le gâteau (La torta) sono selvaggi e imploranti (loro, non il bimbo), bramosi.


A proposito di povertà. Vagando nei giardini pubblici (Les veuves – Le vedove) il poeta intercetta gli occhi infossati, bruciati dalle lacrime: in fondo all’occhio del povero vede «il riflettersi della gioia del ricco». Questa è una delle immagini più significative dell’approccio di Baudelaire nei confronti dello straccione, del reietto: una sorta di attrazione/repulsione, un gioco di forze apparentemente opposte che stringono un nodo alla sua gola. Lo sguardo disperato del povero sembra apparire dietro ogni angolo, e marchia a fuoco la coscienza dello scrittore.

Gli occhi di coloro che vivono ai margini della società, si può affermare in conclusione, sono la più autentica e toccante chiave di lettura dello Spleen di Parigi. Una pletora di «ultimi», di matti, di personaggi loschi o miserabili: tutti parlano con lo sguardo e restituiscono al lettore un tormento fisico e morale al tempo stesso.

Se il povero è un bambino, la cui espressione è più immediata e priva di filtri, gli occhi diventano una finestra aperta sull’anima. In lui, forse ancor più che nella donna fatale, Baudelaire vede riflesso il proprio tormento interiore, il proprio scontro di opposti.

Gli occhi dei bambini di strada, di fronte alla visione di un regalo, finiscono per «spalancarsi a dismisura». In Le Joujou du pavre (Il giocattolo del povero), gli sguardi di due bimbi di opposta classe sociale si incrociano attratti dai rispettivi giocattoli e annullano in un attimo la distanza che li separa.


Les yeux des pauvres (Gli occhi dei poveri) è il paradigma dei concetti appena espressi. Dall’interno di un elegante caffè parigino, Baudelaire osserva una famiglia di straccioni in mezzo alla strada. Un uomo che tiene per mano un figlio e in braccio l’altro. «Quei sei occhi contemplavano e fissavano il caffè nuovo con pari ammirazione, benché con diverse sfumature a seconda dell’età». Il poeta stesso la definisce una famille d’yeux, una famiglia di occhi.

Baudelaire confessa di provare vergogna, e si aspetterebbe uguale reazione da parte della dama seduta accanto a lui. Si tuffa così nei suoi occhi «così belli, così bizzarri e dolci [...] abitati dal capriccio e ispirati dalla Luna». Per tutta risposta, la donna definisce insopportabili quegli sguardi inebetiti, «spalancati come portoni», e pretende che il maître li allontani.

Qui il poeta vede sgretolarsi la speranza che aveva riposto nella sintonia di pensiero con la donna amata, al punto di dichiararle il proprio odio.

Ma torniamo su quella famiglia d’occhi.

Gli occhi del padre e del figlio più grande dicono:  «come è bello! come è bello!» e disegnano l’incolmabile fossato tra ricchi borghesi e miserabili mendicanti. «Si direbbe che tutto l’oro della povera gente sia venuto a mettersi su questi muri». «Ma è una casa dove possono entrare solo quelli che non sono come noi», dicono con lo sguardo.

«Quanto agli occhi del più piccolo, erano troppo affascinati per esprimere qualcosa di diverso da una gioia profonda e ottusa».

Questa è forse la frase più affascinante e significativa dell’intero Spleen [2].

Gli occhi più profondi e inquietanti sono gli occhi dei poveri.



*

[1] L’inversione delle regole codificate in prosa e in poesia, tra il diciannovesimo secolo e la poesia d’oggi, è rimarcata da Alfonso Berardinelli, traduttore de Lo spleen di Parigi (Garzanti, 1989). A Berardinelli si deve la traduzione dei versi di Baudelaire utilizzata in questo scritto.

[2] Il gruppo The Cure, nella canzone How Beautiful You Are, riprende ampi stralci del racconto di Baudelaire, e in modo quasi letterale ripropone la descrizione del bambino più piccolo: «The child’s eyes uttered nothing / But a mute and utter joy».


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Immagine di copertina: Jannis Kounellis, Senza titolo (Rosa nera), 1964


17/04/2025

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