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Fuoricampo
LE TRE LEZIONI DI DANTE.
ELIOT E IL COMPITO DELLA POESIA
di Daniele Gigli
Quando mi iscrissi a Lettere, quasi trent’anni fa, c’era una stella polare a guidarmi – ingenua, forse presuntuosa, ma autentica e urticante come soltanto le cose necessarie possono esserlo: andare a caccia di qualcuno come me. Di qualcuno che finalmente come me sentisse il vuoto della vita, che come me sentisse il miracolo delle parole; che, come me, fosse obbligato a far parte della feccia del mondo, di quello scarto di lavorazione che è la genìa di quanti non soltanto sono inadatti ai desideri ordinari, ma inadatti persino a desiderarli.
C’è un brano di The Family Reunion – il terzo lavoro teatrale di T.S. Eliot, se escludiamo il pionieristico e incompiuto Sweeney agonista – in cui il protagonista Harry, che forse ha ucciso sua moglie o forse no, parlando con i famigliari dell’incidente d’auto appena subito dal fratello John, ben descrive questa differenza di fase con il mondo ordinario:
È quando non vedono nulla
che le persone sanno sempre mostrare le giuste emozioni
e per quanto magari non provino nulla
le loro emozioni sono sempre appropriate.
Loro non sanno che cosa sia essere svegli,
vivere a un tempo su piani diversi.
Io ho verso John tutti quei giusti sentimenti
che voi ritenete appropriati. Solo, non è quello il linguaggio
che ho scelto di parlare. Non voglio parlare il vostro [1].
John vive su piani diversi e non può accettare la lingua premasticata dei suoi pari, né i loro sentimenti premasticati. Non può accettare di usare la piatta, ordinaria scala di coscienza di chi vive nel sonno, soltanto credendo di vivere. La scala di coscienza di gente che si lascia vivere da vite magari anche vorticose, ma a cui non è in realtà mai successo davvero nulla – gente mai visitata dall’incubo:
Voi siete gente
cui mai nulla è successo, se non un continuo urto
di eventi esterni. Avete attraversato la vita nel sonno,
mai destati dall’incubo [2]
Elitario? Arrogante? Presuntuoso? Forse sì, e forse lo è altrettanto il suo creatore, se già vent’anni prima in un saggio sui poeti metafisici definisce la mente del poeta come costantemente intenta a «costruire nuove aggregazioni» [3], sottolineandone lo scarto rispetto a quella che chiama «mente ordinaria» [4].
Eppure proprio dalla coscienza di questo scarto e dalla sua pacifica ammissione, senza false modestie, Eliot riesce a individuare e a perseguire il compito del poeta nel consesso civile. Se infatti la mente del poeta segue un processo differente da quello della mente ordinaria, e se al poeta interessa far conoscere a un uomo ordinario e alla sua mente ordinaria ciò che egli sperimenta, allora non c’è che una strada da percorrere: che il poeta tenti di far vedere ciò che vede lui. E siccome a guardare s’impara, così come s’impara a parlare; siccome, anzi, guardando s’impara a parlare e parlando si reimpara a guardare, Eliot affina questa sua percezione alla scuola di più di un modello, tra i quali si staglia via via con maggiore imponenza la figura di Dante.
Una lezione, quella dantesca, che è al contempo tecnica e morale, deontologica; anzi, che è morale e deontologica proprio in quanto tecnica. Quello di Dante, ci dice Eliot, «è un debito di tipo progressivamente cumulativo» [5], che va al di là di questo o quel verso, di questa o quella immagine. È il debito che si contrae con un maestro: con qualcuno, cioè, che insegna a guardare e ad agire il mondo in una certa maniera.
Nel guardare in retrospettiva il debito che l’insegnamento dantesco gli ha lasciato – e che lascia alla postmodernità allora incipiente e in cui ancora tutti noi annaspiamo – Eliot individua tre grandi insegnamenti: «Il primo è che tra i pochissimi poeti di una simile statura non c’è nessuno, nemmeno Virgilio, che sia stato un più attento studioso dell’arte della poesia o un più scrupoloso, accorto e consapevole praticante del mestiere. […] Rendersi conto sempre più, durante il corso della propria vita, di che cosa questo significhi, è di per sé una lezione morale. Ma ne traggo un’altra lezione, che è anch’essa una lezione morale. L’intero studio, la pratica di Dante, mi sembra insegnare che il poeta debba essere servo della propria lingua, più che padrone» [6].
La «seconda lezione di Dante», una lezione che «nessun poeta, in nessuna lingua che io conosca, può insegnare» [7], riguarda «l’ampiezza della sfera emotiva» [8]: «Servendomi di questa immagine, posso dire che il grande poeta non dovrebbe soltanto percepire e distinguere più chiaramente degli altri uomini i colori o i suoni nell’ambito della normale visione o dell’ascolto; dovrebbe percepire le vibrazioni al di là della portata degli uomini comuni, ed essere capace di far vedere e sentire loro più di quanto avrebbero mai potuto vedere o sentire senza il suo aiuto» [9].
Si tratta di due lezioni inscindibili, impensabili l’una senza l’altra. Perché il poeta possa «rendere comprensibile alla gente ciò che è incomprensibile» deve infatti anzitutto avere «immense risorse linguistiche». Al contempo, «sviluppando il linguaggio, arricchendo il significato delle parole e mostrando ciò che possono fare», egli «rende possibile agli altri uomini una gamma molto più vasta di emozioni e percezioni, perché dà loro le parole per meglio esprimerle» [10].
Viene così da sé l’ultima delle lezioni di Dante – paradossale e controintuitiva come tutte le lezioni della poesia: il fatto che Dante sia «rispetto a tutti gli altri poeti del nostro continente, di gran lunga il più europeo», il «meno provinciale»; e che questa europeità non solo non la raggiunse «smettendo di essere locale» [11], ma al contrario si nutre del suo profondo radicamento tra la sua gente e le sue quotidiane vicissitudini.
E in un mondo come il nostro, in cui persino i poeti hanno paura delle parole e dei sentimenti e in cui si crede di costruire una società migliore a furia di asterischi, schwa e parole cancellate dal lessico e dall’esperienza comune; in un mondo, insomma, dove anche chi dovrebbe più combattere il detrimento dell’umano si ostina invece a usare «parole sempre più raffinate per sentimenti sempre più rozzi», a parlare «non di sentimenti ed emozioni, ma delle loro astrazioni sociali» [12], la lezione di Dante ed Eliot parla forse soprattutto a noialtri.
A noi che ci picchiamo di amare la poesia e di alleviare per mezzo suo la pena del mondo; a noi che, se davvero avessimo in mente che cos’è la forza divina della parola, forse tremeremmo di timor panico, ogni volta che osiamo pronunciarne una o, peggio, metterla per iscritto.
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Alcune parti dell’articolo rielaborano interventi già pronunciati o pubblicati altrove, in particolare il cap. 14 di T.S. Eliot. Nel fuoco del conoscere, Ares, 2021.
Tutte le traduzioni da Eliot sono a cura dell’autore.
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[1] T.S. Eliot, The Family Reunion, 1939, parte II scena 1.
[2] Ivi, parte I scena 1.
[3] Id., The Metaphysical Poets, 1921.
[4] Ibidem.
[5] Id., What Dante Means to Me, 1950.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem.
[12] Id., Philip Massinger, 1920.
21/03/2024