Title
Fuoricampo
IL CAMMINO SULL’ACQUA.
PER DOMENICO BRANCALE
di Alfonso Guida
L’età della ragione in Domenico Brancale comincia da un naufragio, da un dissesto idro-geologico.
Quando appare la città delle soglie distrutte, l’orizzonte si snida dalla crepa verticale della base. Brancale è allo snodo.
L’ossario, questo inizio del passato, illuminato dalla pazienza di un sole rimasto, come un fuoco, a bruciare sui resti. Poi le acque raccolte sui detriti fluviali di una piena enigmatica.
Questo il fenomeno essenzializzato.
Dove sei andato a finire, Domenico. Quante isole aperte nell’acqua della voce, quante ombre.
Una mitologia del detrito e del riflesso screziato o della superficie polverizzata. Stare su una sponda sottratta all’idea di riva. Antonio Roquentin, che incontra un immaginario bambino per dirgli (quasi un grido contro): «vedi i sassi del gioco? Li vedi sporchi di fango?».
Soffre la parola di te, soffre le ombre che la lingua non riuscirà a ricomporre della tua presenza.
I posseduti dall’acqua costruiscono corone di omaggi bianchi al dio dell’oceano: ghiaia, ciottoli, sale.
Che cos’è il sale? La materia con cui Dio e gli dei paralizzano.
L’acqua, in Brancale, ha oltraggiato la sete superando la sua misura, la sagoma arsa.
Soffrire di una sentenza legale.
Alla porta bussa ossessivamente l’ospite. Ha l’inizio rintoccante delle anafore, l’inizio rigido, geometrico, definito di una guerra, un’officina di ferro e martelli, che va verso di sé, un puro abbraccio di dissoluzione.
La Macedonia arancione di uno scalpitare equestre. I cavalli delle onde. Le circonvoluzioni d’acqua.
La stretta gentile dell’acqua, la sua affabilità elementare (Trismegisto, che Brancale cita).
La stretta bestiale (l’uragano da curvare di Amelia Rosselli. Il monsone nelle acque del Mar Rosso al passaggio dell’esercito egizio).
La stretta bestiale – acqua nera distillata dai nodi della nostra composizione organica di corpi. Noi, precipitati chimici, cristalli perturbati dalla separazione. Malinconia generativa.
«Scrivi quando emerge il ritmo dei giorni».
Brancale si arrabbia con le stonature del respiro.
Per un istante ci siamo guardati, giunti in un luogo che ho dimenticato, ma è vivo l’incontro dei pensieri nella lingua. Leggevano, leggevano, leggevano. Poetucoli. Ciascuno i propri versi. Questa volgare frenesia comune che non so spiegare. Brancale, offeso, senza abbassare la celata ha detto: «ma che musica orrenda è questa intorno».
«Le poesie si scrivono coi ginocchi sulle pietre aguzze» (Alda Merini).
A volte, la temperie dei temporali.
Pioggia, pioggerella ispiratrice, non noiosa, penniana.
Come cade sui graticci lastricati di Venezia.
Brancale è originario di Sant’Arcangelo (Lucania).
Vive tra Bologna e Venezia. Qualche volta, Parigi.
I poeti sono lucani, antelucani.
Darkwater.
Nel poeta è l’acqua che si ribella. Sommerge, affonda, annega.
Più del mistero, il nodo della luce.
Di Brancale ho – abbiamo – bisogno.
Le sue parole: sali di piombo che chiarificano il vino.
Brancale riconduce tutti i traumi al trauma della nascita. Ogni goccia d’acqua porta l’estensione delle acque originarie, le thalassiche, le materne, le femminili, di cui parla Ferenczi.
L’uomo vuole tornare pesce e pesce è scritto sul buco della porta dell’oceano. Una donna. La madre.
Sándor Ferenczi anche nella nostalgia del primo stadio. L’acqua è il feticcio maledetto di un richiamo bestiale, come le date tra i tempi in più vite, come la stessa data di me, di te, di un uomo o di un fatto lontano, un altro sé, un altro te nello straniero, dove vivi di un’intera tua vita, solo un po’ dislocata.
Altri nomi dell’acqua: acquamanile, acqua solaria.
Il nonno Emilio, dopo la rasatura, si cospargeva il viso di Aqua Velva.
Acqua azzurro – verde petrolio. Bottiglietta ovale.
La morte, in Brancale, si nutre di acque.
L’acqua maligna. Di un’acqua assassina.
Prende e offre, restituisce il suo nutrimento sottoforma di cappio o lacci fatti da rami di canne palustri per soffocare la sua preda. Ora ho capito il terribile.
Dovunque acqua sia voce è un libro di gratitudine.
Appaiono, sparsi, come ospiti di uno spettacolo, tanti nomi di scrittori e poeti, tanti fatti storici.
Bisogna aspettare anni perché la notte inizi la sua agonia nel canto di un torrente sperduto e moltiplichi il suono degli astri per ogni onda.
«Inseguo il garrito delle rondini», scrive il poeta.
Rondinelle che vidi cieche, ammattite sorelle, sfrecciare, all’alba, contro il davanzale gelato di settembre, le cieche rondinelle ammattite care ad Assunta Finiguerra.
I manicomi delle nostre terre sono pieni di vergini. E gli entomologi sezionano larve, ninfe e pupe in teche di opale.
Se l’argilla ti scorre dalle mani, quale perfezione avrai nelle mani?
Il Signore ha perso la sua materia.
Dove? In quale sagoma soffi? Dove ti offri senso donando? Dove sei alito?
Anche Brancale piange l’innocenza. E la crudeltà.
L’osservazione paziente del fiume.
Hai galleggiato con l’acqua alla gola.
Firn, in svizzero tedesco, significa ‘dell’anno prima’.
La neve delle passate stagioni subisce una trasformazione, si addensa parzialmente, si cristallizza e forma nuovo manto nevoso con densità intermedia tra neve granulare e ghiaccio glaciale. Il firn si trova sotto i cumuli di neve che si formano alla testa di un ghiacciaio. È duro, resistente, ha consistenza di zucchero bagnato. Nasce dai fiocchi compressi sotto il peso del manto. I cristalli, semiliquidi, vicini al punto di fusione, scivolando lungo i piani di altri cristalli, occupano lo spazio vacante tra loro, aumentando la densità del ghiaccio. I cristalli congiunti, schiacciando l’aria intercorrente tra di essi, la fanno risalire in superficie in forma gassosa.
La metamorfosi dei cristalli avviene d’estate, quando più rapidamente avviene la percolazione delle acque, a un’altitudine montuosa minima chiamata snowline (linea delle nevi perenni).
Lasciando cadere un tronco in acqua, l’uomo ha intuito l’altra riva, la possibilità di una tecnica di trasporto del legname da un luogo all’altro.
È la fluitazione. Tronchi affidati alla forza della corrente di fiumi o torrenti, fatti scendere a valle sottoforma di zattere, fermati e raccolti a destinazione. In tempi passati, erano gli zattieri a facilitarne la discesa, un lavoro pericoloso sparito con l’avvento del trasporto di legname su ruota gommata o ferrata.
Devi rimarginare la parola storica della ferita che ha attraversato la mano dell’Angelo, suonatore apocalittico.
Domenico, sto scrivendo il monologo spirituale di una parola-femmina che ha sempre gambe aperte e trova luce nel seme che riceve, nell’ossessivo scatto del maschio che nasce dal farsi dono, miracolosa estensione di sé, amor cortese, dolce spargimento, fecondazione.
Fugge nelle ore, Brancale, e si vede fuggire.
Il grande nulla – costellazione stellare di nebule – s’infrange al passo da tedoforo della fuga di idee.
L’acquasanta è la neve che le vecchie offrono all’altare delle generazioni.
Ti bagni la testa col ghiaccio. Tutto l’inverno preghi, devoto come una lucertola.
Scadenze, somministrazioni, baratri.
Altre urne di basalto a contenere le icone mortuarie del paese, Sant’Arcangelo, santità di foglie accese sui bordi dei sentieri amari e cari, forse, ai dissotterratori, agli scavi nella neve dei contadini, piante di sale, fienagioni per sperare.
La bellezza delle canne palustri è opera dell’acqua.
L’esperienza del gorgo si può fare con la voce o con l’acqua.
Brancale, a 45 anni, si è acquefatto.
Come nella culla di un sarcofago d’acqua in un video di Bill Viola.
Tutte le acque nella storia dell’arte. Rigagnoli, ramificazioni, reticolati, stagnazioni, foci, acqua ossigenata, acqua di madre, origine, madre che bacia la bua, madre che non curò la ferita diciassettenne di Rimbaud.
Brancale non voleva nascere. Un parto funambolico. Il medico del paese lo rivoltò con le mani nell’utero. Senza questo gesto esperto e necessario, Brancale sarebbe morto strozzato, morto nell’istante in cui sarebbe dovuto nascere.
In quanti non sanno leggere gli astri, mentre qui, lo sai, è arrivata la cenere – fuoco vivo, fuoco vinto, fuoco via dei campi e del risorto – restare qui. L’emigrato tradisce, questo il crimine, tradisce due volte se la memoria perde, colpevole di abbandono, come i morti per Ferruccio Benzoni, come un fatto di lutto. Si concentra la via soccorritrice, il beneficio delle acque. In Brancale arde una santità marina, un miracolo pensato con l’aiuto primitivo delle acque. Dove le acque sono già transito, purgatorio, ospedale. Un invaso.
Zampillo da una barca –
radice soffocata
dallo zampillo capovolto.
Brancale, per un attimo, per una durata temporale non misurabile, si stacca dal vino, dal sangue, dalla Crocefissione (la parola del Sacro). La sua passione giunge da un torrente spettrale, moltiplicato. Ora dovrà capire la nascita e le ipotesi di morte reiterata, la neve che scende a ogni stagione, evaporando, addensandosi, rompendosi.
«Silenzio di parola», scrive l’eco celaniana di Brancale.
Muto silenzio dei fatti. Appena un sibilo di vento transiberiano. Appena il ricordo della neve di deportazione. Ecco il deserto penitente, la faggeta delle vittime di Bucovina, che trasportano le lapidi lisce, senza nome, del soldato di Masada. L’ira di Brancale come l’ira di Paul Antschel Celan grida: No pasaran!.
In questo silenzio presagito e colmo di presagi, si fa strada l’agnizione promessa, definitiva.
Nel deserto egizio del IV sec. a.C. le rocce strepitavano in un ventriloquio oracolare, i pozzi minerari bruivano incastonati tra gneiss e feldspati. Fiorivano le rose di sabbia che il padre, a sera, portava a casa, tornando dal cantiere dell’AGIP.
E non è un bene che ti abbiano messo a vivere oltre le crepe di questa terra spaventata, tra i canali e i muschi di Venezia, dove il mondo intorno è più in armonia con la tua condizione naturale di uccello acquatico migratorio delle ceneri?
La sarcoidosi, gli incontri, i poeti, un cammino.
In Brancale – nei suoi occhi fermi, maschi, a tratti insostenibili, mossi da un dolcissimo strabismo di venere – l’umiltà delle cose è un’ouverture, una primavera della voce, dove le incudini suonano all’arrivo delle generazioni sepolte, dei nibelunghi dinamici che raccolgono pepite, dove tutto prosegue ed è più vivo, un paese di matriarche che setacciano verità tramandate, di autunno in autunno, col segno esclamativo dello sguardo.
Brancale è la foglia che guarda, i riflessi dei tetti nelle pozzanghere di pioggia, la luce come figlia, dono di verità teoforica. È un canto verticale, a tratti, disperato, che celebra la ‘sponsa’ delle mani giunte davanti all’ostensorio della parola. Brancale appartiene alla generazione del Verbo. È alto ma rimane nel fango, guarda ovunque ma non smarrisce il terreno su cui poggia.
È un canto verticale, sì, che congiunge, facendo sparire, una scherzosa scomparsa della memoria. Ma difficile è nascondersi. Difficile sciogliere di ogni nascondimento l’incantato retaggio. Solo un suono animale si leva, un ululo terrestre, come di lupo che impreca, una musica lunga e invincibile che, a tratti, si compone e ricompone con le note di chi scopre la grazia. Dall’ombra alla grazia. Dal fardello alla coscienza dello scaraventato. Dove? Dove, forse, nulla avviene. E l’acqua diventa una presenza lieve, carezzevole, una folata di cenere.
Dovunque acqua sia voce è un libro con una fiamma tra le pagine. Un salterio, un menologio. I martiri della Chiesa Cristiana. È un libro di torsioni. Torsioni, contorsionismi, contorcimenti, ogni moto è di natura interamente acquatica. Un’acqua che raccoglie tutti gli elementi del pianeta. Si vede dalla superficie tersa, la terra del fondale, l’aria traspare, minerale, tra le creste, il fuoco brucia la voce screziata di sale.
I morti respirano, quelli di Paul Celan, raccomandati come un’invocazione a Francesco d’Assisi, ancora implorano. Brancale si confonde con le orme vocali dei suoi eredi morti e dei suoi morti padri. Nel sale, spesso, come polvere, vegliano anche le tracce di sangue con cui Vincent Van Gogh scriveva il proprio nome sulle pareti.
[…]
– Mancano le distanze.
– Quante?
– Conta.
*
Fotografia © Mimmo Jodice
08/11/2022