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Fuoricampo

PERCHÉ CANTANO GLI UCCELLI?
STORIA E PREISTORIA DI BENOZZO

di Giuseppe Ferrara

Iosif Brodskij diceva che le biografie dei poeti sono come quelle degli uccelli: identiche tra loro [1]. Cosicché quello che risulta veramente importante, per gli uni come per gli altri, non sono le individuali odissee, «restanze» [2] e migrazioni, ma i suoni emessi dal loro canto: Walcott, ad esempio, cantava emettendo ‘versi’ inglesi, patois e creoli; Brodskij, suonava ‘note’ russe, italiane e inglesi, e che dire delle innumerevoli ‘melodie dialettali’ usate dai poeti italiani?

Al di là di queste suggestive identità nella specie e comportamento di specie, ancor più intrigante è riuscire davvero a sapere perché uccelli e poeti cantano.

Il canto sembra incarnare il moto di un’evoluzione piuttosto che una tappa del processo evolutivo; in altre parole, sembra tradurre la marea e non le leggi fisiche che la regolano. Da questo punto di vista potremmo ipotizzare un legame tra il canto e una catastrofe del passato geologico, quasi fosse una sorta di celebrazione di un qualche evento traumatico a coinvolgere uomo e cosmo, piuttosto che la codifica di uno specifico comportamento legato a mere questioni biologico-evoluzioniste.


Perché dunque gli uccelli, i poeti cantano?


Potremmo affidarci a quattro risposte canoniche [3]. La prima ha a che fare con un punto di vista meramente meccanicistico: i poeti cantano perché hanno un organo vocale complesso e circuiti neurali legati alla fonazione che sono attivati da specifici livelli ormonali.

Il secondo punto di vista chiama in causa il condizionamento da parte di un ambiente pieno di suoni conspecifici, appresi.

Ancora: in una prospettiva filogenetica, poeti (e uccelli) a un certo punto del loro processo evolutivo avrebbero sviluppato un organo vocale e questo – la laringe per la specie homo, la syrinx per gli uccelli –, poiché non fossilizza, non avrebbe lasciato tracce di sé.

Per finire, si potrebbe dare una risposta funzionale: a livello adattivo si è iniziato a cantare perché ciò avrebbe migliorato l’attrazione per l’accoppiamento (la sopravvivenza della specie) e la difesa del territorio (l’equilibrio del proprio habitat naturale).

Tutti e quattro i punti di vista hanno, a ben vedere, un fondamento comune: in un modo o nell’altro il canto risulta essere un fenomeno emergente, un fenomeno per cui una combinazione (non importa se causale o meno) di elementi preesistenti ha dato vita a qualcosa di completamente inaspettato.

Ora è noto che l’emergenza procede sempre da un «fallimento topologico» che in matematica è denominato catastrofe, vale a dire che se il canto è un’emergenza, la catastrofe, da sempre, lo precede.

Prima del canto, un fallimento è senza dubbio avvenuto [4].

Oggi, la maggior parte dei filosofi del linguaggio concorda sul fatto che, in quanto esseri umani, non possiamo uscire dal recinto linguistico e questo perché siamo di fatto la ‘macchina del linguaggio’ [5]. Detto in altri termini, se il linguaggio ci parla, il canto ci canta.


Se nel panorama nazionale (e non solo) c’è un poeta capace di dare corpo e senso alle precedenti considerazioni, questi è Francesco Benozzo.

Wisława Szymborska, alla sua prima apparizione pubblica in Italia dopo l’assegnazione del Nobel nel 1996, lo ritrasse con queste parole: «A Roma c’era un giovane uomo solitario con lo sguardo inquisitivo accovacciato sul palco, che suonava l’arpa mentre leggevo le mie poesie: ci siamo scambiati tanti sorrisi durante tutta la serata, ma solo dopo, quando se ne era già andato mi hanno detto che era anche lui un poeta. Che fortuna ho pensato: essere poeti e suonare anche in quel modo! E il Nobel lo hanno dato a me?».

Attraverso il canto di Francesco Benozzo – un arpista che è anche poeta, o, come preferisce lui stesso definirsi, «un poeta che suona l’arpa» – proveremo a ricordare perché il poeta canta, cercando di dimostrare la reale natura del canto quale emergenza, appunto, da una catastrofe.


Tutta l’opera ‘geologica’ di Benozzo si presenta fin dall’inizio come un corpo senza lingua e dunque senza una voce e in questo «vuoto mitocondriale», come il poeta dice, si gridano versi che all’aria non si sentono [6].

Non essendoci una vera e propria ‘identità’ – un corpo con una lingua? – allora non esistono propriamente


     né vita né morte, qui a Smerillo

     non domande, risposte, nessuna ricerca

     ma l’inaudita verità di pietra e stelo

     la risonanza vegetale del diluvio.


Prima ancora quindi di emettere qualunque suono, di ascoltarlo, prima che si formi la coscienza di qualcosa/qualcuno – un Universo, un Uccello, un Uomo –, c’è un’eco di diluvio, lo scricchiolìo di una formazione geologica, lo schianto di un meteorite, il rumore di fondo di una radiazione cosmica a 3 °K,


     cose grandi e lontane: tutte hanno un nome

     ma il vero nome l’ho appreso senza parlare

     prima di nominarle voce e respiro

     nella nuda grammatica dell’albero

     nella logica anarchica delle frane

     nella sintassi dei frammenti d’orogenesi.


La poesia di Benozzo si presta quindi non a una voce vera e propria ma al canto di sommovimenti geologici, alla musica delle variazioni di un paesaggio, e si intreccia al suono e alla voce di un terrore/tremore ancestrale. La ‘parola’ è prima di tutto gesto perché è nei gesti di un neolitico mai estinto che mette radici l’etimo preverbale della poesia, ed è proprio dai gesti grandiosi e catastrofici del mare, del cielo e della terra che parte il canto.


Quando si scampa a una catastrofe, quando si prende coscienza di essere sopravvissuti (individualmente e come specie), si esulta, si danza, si grida, si canta perché il «grido di un uccello solitario / affila il cuore a spazi di mare aperto». Quella degli uccelli (dei poeti) è probabilmente specie scampata a catastrofi e che quindi canta per conservare memorie vegetali, stellari, geologiche dei diluvi: per ricordare che fu solo «un sogno di felci… / ad averci portato così in alto». Alla felicità d’esserci ancora.

Il poeta è dunque il primo testimone di uno sguardo dimenticato, di una voce che si percepisce appena. Di tutto un mondo che è scomparso ma ha lasciato un segno simile a un sogno.

Uccelli e poeti hanno cristallizzato emozioni di terrore e di gioia, tremiti, prima in un gesto e poi in un sentimento. Questo sentimento si è dovuto fare lingua per essere versato in un canto e potersi udire: «Malgrado le pietre / ridotte a laterizi / fratello poeta / rideremo ancora».


Si badi che l’azione di cantare, la marea dunque, nulla ha a che fare con il canto e le leggi ‘fisiche’ e umane che lo determinano. In altri termini: l’emerso nulla dice della catastrofe. Potremo dire come sia stata costruita una capanna, con quali tecniche e materiali, potremo descriverne ed esaltarne la bellezza, inventare una storia dell’architettura, ma tutto questo non dirà nulla sul perché e, soprattutto, nulla sulla catastrofe che ha preceduto ogni cosa.

Ed evidentemente, se il canto è un’emergenza, cantare può anche voler dire avvertire (o scongiurare) il naufragio, ecco perché «non è una cosa barbara scrivere poesia dopo Auschwitz» [7]. L’eco della catastrofe, la paura dell’estinzione, la sofferenza dell’individuo spalanca la vita al canto attraverso una laringe (una syrinx) che sgorga come puro enigma, come un’eccedenza di realtà. Una surrealtà che dà diritto di espressione, dà diritto all’urlo di terrore e disperazione, al lamento, ma subito dopo anche al canto di gioia come atto creativo per testimoniare che il mondo non è più uguale a sé stesso; che neanche noi, per il fatto di essere scampati a un olocausto, a una epidemia, a una apocalisse, lo siamo più. L’individuo della specie, il sopravvissuto, colui che ritorna con un ramoscello d’ulivo nel becco dopo il diluvio o colui che esce dalla caverna quando l’inverno è appena finito, costui, ora che la materia si è fatta carne, precisamente lingua, può cantare e può aiutare a ricordare


     ...di altri mari

     di cetacei arenati in Appennino

     di vita e morte dentro i corpi umani

     delle folle disperse degli abeti

     della risacca grassa d’erba medica

     calpestata dall’uomo-dei-confini

     di ventri in geografie biancolunate...

     ...La sua parola ha forma di un mulino

     la sua memoria ha forma di una macina.


Costui può dire finalmente l’evoluzione delle evoluzioni, può salire dal fondo del maelstrom, del mulino che ha macinato di volta in volta polvere da galassie e pianeti, sale dal mare, grano dalla terra, vita dalle vite, poesia dai versi, e che nello stesso tempo ha rigenerato cieli nuovi e correnti oceaniche, ha scoperto altre terre e ritrovato nuove vie, canti e vie dei canti.


È vero: come un uccello Benozzo canta perché ha un organo vocale complesso e mappe neurali legate a specifici livelli ormonali; canta perché anche gli altri individui della sua specie emettono suoni, benché in modo meno aggraziato, o cercano di imitare un canto (come i merli, capaci di riprodurre il canto di altre venti specie di uccelli), e infine canta perché ciò gli permette di sottolineare la sua e la nostra identità di specie. La nostra sopravvivenza.

Francesco Benozzo canta per tutti questi motivi, che in fondo sono le ragioni della poesia allorché le parole e i versi vengono gestiti. Ma nel profondo il canto di Benozzo serve a ricordarci che c’è stato un tempo dal quale siamo ‘emersi’ e che dunque riusciremo ancora a ‘emergere’ dalle nostre probabili catastrofi.

Perché dopo il linguaggio, dopo il canto, e forse proprio grazie a questi, c’è sempre e sempre ci sarà la leopardiana «vita estrinseca».

Cantare, in fondo, è solo questo: fermare e affermare questa vita.

A dispetto di morte ed estinzione, uccelli e poeti cantano perché sono sopravvissuti e lo ricordano alla propria specie di appartenenza; di questo e per questo, essi sono inconsciamente, immotivatamente e ingenuamente felici.

E anche noi, grazie a Benozzo, scampiamo giorno per giorno alla catastrofe.


     PARTE DICIANNOVESIMA

     OGNI COSA GIÀ NOTA SI FA OSCURA


     Sono il viandante della notte degli alberi

     io sono prima e dopo la caduta

     io non mi inoltro, vivendo, verso la morte

     ma fuggo la catastrofe della nascita.

     Sono il viandante della notte degli alberi

     dove mi aggiro, quassù, non vedo nessuno

     dove pensavo di incontrare i grandi poeti

     non ho visto che cardi ed areniti:

     nessun fondale obliquo, nessun canto

     nessun’ombra di Anchise o di Virgilio.

     Comincia a piovere – prati di sud-ovest –

     il gheppio ha smesso di gridare, e a valle

     ogni cosa già nota si fa oscura.

     Si direbbe che il mondo, in questo istante,

     abbia deciso di tornare mare.



*

[1] Iosif Brodskij, introduzione a Derek Walcott, Mappa del nuovo mondo, Adelphi, 1992.

[2] Vito Teti, Pietre di pane. Un’antropologia del restare, Quodlibet, 2011.

[3] Robert C. Berwick e Noam Chomsky, Perché solo noi. Linguaggio ed evoluzione, Bollati Boringhieri, 2016.

[4] René Thom, Modelli matematici della morfogenesi, Einaudi, 1998.

[5] Felice Cimatti, La vita estrinseca. Dopo il linguaggio, Orthotes Editrice, 2018. «Vita estrinseca» è un’espressione usata da Giacomo Leopardi nell’Elogio degli uccelli, breve testo scritto nel 1824 e contenuto nelle Operette morali.

[6] Le opere di Francesco Benozzo sono pubblicate dalla casa editrice Kolibris: Onirico geologico, 2014; e quindi, con traduzione inglese di G. Sutherland: Felci in rivolta / Ferns in Revolt, 2015; La capanna del naufrago / The Castaway’s Hut, 2017; Poema dal limite del mondo / Poem from the Edge of the World, 2018. Sulla sua opera: AA.VV., Come una statua nella nebbia dell’epica, Kolibris, 2018. Le parole di Wisława Szymborska in: Francesco Benozzo, David Bowie. L’arborescenza della bellezza molteplice, Universalia, 2018. Smerillo, la località appenninica citata nei versi, trae il suo nome da quello di un falchetto della zona, lo ‘smeriglio’.

[7] Paola Gnani, Scrivere poesie dopo Auschwitz. Paul Celan e Theodor W. Adorno, Giuntina, 2010.


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Immagine di copertina: Fred Tomaselli, Migrant Fruit Thugs, 2006


04/03/2021

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