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di Angelo Di Carlo
«Le cose sono cambiate» [1], cantava Bob Dylan in un disco ormai vecchio di vent’anni, e prendere le mosse dal cantautore insignito del Nobel nel 2016 [2], come dovrebbe apparire chiaro, non è una scelta neutra né casuale.
Le cose sono cambiate: il tempo è cambiato. È cambiato il modo in cui ci rappresentiamo il mondo: lo spazio si restringe e si dilata secondo principi che eccedono le comuni abilità di comprensione umana e il tempo pare voler rifuggire da ogni, sia pure remota, idea di ‘profondità’.
Soprattutto è cambiato il modo in cui la cultura si muove, viaggia, ‘migra’. Diverse sono le modalità con cui questa viene prodotta, diversi i contesti di fruizione, diversi i canali di trasmissione e se, come dice McLuhan, «il potere formativo dei media è nei media stessi» [3] e «ogni medium ha […] il potere di imporre agli incauti i propri presupposti» [4], se ogni mezzo di trasmissione si fa portatore di una propria semantica, di una particolare carica trasformativa, uno stato di cose come quello descritto non deve essere privo di conseguenze neanche per ciò che concerne le coordinate mentali proprie di un mondo che si affretta a uscire da un’era lunga e gloriosa, l’era di Gutenberg.
L’opera di ‘scritturalizzazione’ del mondo sembra giungere a un punto di svolta e, già da diversi decenni, la dimensione tipografica e la tecnologia della scrittura sembrano avere smarrito ogni sorta di primato culturale e informativo. La spinta irresistibile al rinnovamento dell’intero sistema della comunicazione, l’affermarsi di una cultura eminentemente digitale, con tutto il repertorio di inedite potenzialità che può offrire e che, in genere, implicano una partecipazione ‘polisensoriale’ da parte dell’individuo (l’utente-visitatore) che non può arrestarsi al dato puramente ‘visivo’, stanno innescando una molteplicità di sommovimenti che, in questo modo, non possono non incidere su tutti quei contesti in cui la parola scritta ha storicamente svolto un ruolo decisivo. Il dogma dell’‘osservazione’ della realtà che, tutt’altro che metaforicamente, poggia sui principi di ‘lettura’ e ‘interpretazione’, mostra improrogabili segni di cedimento e, di fronte a un mutamento di tale portata, non è più ammissibile esimersi dall’intavolare un confronto diretto e serrato con la nuova situazione, aggirando ogni tipo di sfida al cambiamento.
Nella fattispecie, senza optare per un drastico ridimensionamento del paradigma della pagina [5], le riflessioni che seguiranno nel corso di questa rubrica si pongono l’obiettivo di dimostrare quanto sia controproducente, oggi, trascurare o ignorare i principi che stanno alla base di due concetti chiave, l’oralità e la vocalità, due categorie che, contribuendo a definire in maniera del tutto peculiare la natura propria del linguaggio, è impensabile che non abbiano storicamente svolto una funzione decisiva in relazione all’articolarsi di certi snodi fondamentali delle storie letterarie, al fissarsi delle caratteristiche proprie dei generi letterari o anche sull’imporsi, in un dato momento storico, di particolari modalità di produzione e ricezione dei testi.
Va poi da sé che avere cognizione delle coordinate fondamentali su cui si regge oggi l’intero sistema della cultura significhi anche riconoscere l’importanza di un ripensamento serio e coerente della nozione stessa di ciò che, senza incontrare grosse difficoltà, continuiamo a chiamare ‘letteratura’ e, a tal proposito, si rende opportuno partire da un dato di carattere puramente etimologico, dal momento che la forza della base latina (littera) non sembra voler cedere all’urto della storia, dei mutamenti che questa porta con sé: non sembra, in altri termini, avere smesso di esercitare un’influenza di tipo semantico sul concetto che adesso ci interessa, di agire sul significato che vi attribuiamo, sicché l’uso di ridurre un fenomeno, complesso e sfuggente, al solo mezzo testuale (la littera, appunto) ha spesso portato alla quasi totale coincidenza del concetto di letteratura con quello, più neutro, di ‘testualità’ o, quanto meno, di un certo tipo di testualità.
Tra le conseguenze più vistose che questo stato di cose porta con sé, dobbiamo accennare alla mancata inclusione di molti di quei fenomeni che al momento definiremo solo ‘artistici’ e che normalmente prescindono da un tipo di fruizione soltanto visiva, silenziosa e individuale, pur presentando una costruzione interna che in larga parte è di carattere essenzialmente linguistico.
Come dunque apparirà chiaro, l’idea di fondo è che, se una specificità del fare letterario esiste, questa vada ricercata, al di fuori del mezzo testuale, in certi usi specifici del linguaggio, in una dimensione verbale che esula dalla comunicazione quotidiana, meno immediata, indiretta e che, come ci hanno insegnato le teorie linguistiche di Roman Jakobson, per quanto in certi casi risulti minima, presenta sempre una qualche dose di autoreferenzialità.
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[1] «Things have changed».
[2] «Per avere creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana» (for having created new poetic expressions within the great American song tradition).
[3] Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Garzanti, Milano 1986. p. 40.
[4] Ivi, p. 31.
[5] Del primato della parola scritta, della carta stampata, rigida, fissa e, in ultima analisi, ‘silenziosa’.
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Immagine di copertina: Mosaico romano del I secolo a.C. raffigurante le maschere tragica e comica (Roma, Musei Capitolini)
11/10/2022