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di Angelo Di Carlo

Scrivono Gabriele Frasca e Lello Voce, figure tra le più interessanti del panorama poetico italiano: «La poesia è dunque costituzionalmente liquida […] pluriversa. Solca indifferentemente vari supporti (aurali, visivi, multimediali), ma  la sua identità è linguistica: se è orale, rimanda allo scritto che la precede, se è scritta, rimanda all’oralità che vi è necessariamente immaginata e incorporata» [1].


Si tratta, in altri termini, di un genere ibrido che sembrerebbe collocarsi ontologicamente ‘oltre il medium’; del resto, le numerose collaborazioni che nel corso degli anni hanno visto la costante partecipazione di scrittori e poeti al fianco di artisti – anzitutto pittori e musicisti – non farebbero che provare questa intrinseca intermedialità. In particolare, quello del rapporto tra letteratura e musica continua a  essere a ragione un argomento tra i più ‘gettonati’, su cui fiumi di inchiostro si sono versati e si versano, sebbene il più delle volte ci si riduca a parlarne con eccessiva facilità, senza prendere in considerazione la necessità di ricorrere a strumenti adeguati.


Dentro il Novecento è possibile rintracciare molteplici esempi di poeti giunti alla scrittura in versi (e letteraria tout court) soltanto in un secondo momento e, per così dire, per vie traverse, indirettamente, dopo aver compiuto un percorso di formazione di stampo essenzialmente musicale che non può non avere esercitato delle influenze, anche vistose, sul tipo di produzione che in modo personale ciascuno avrebbe elaborato, definendo tutta una serie di soluzioni originali che ancora oggi attirano parecchi studiosi.


Uno degli aspetti più affascinanti, tra l’altro, consiste nella specifica concezione del linguaggio maturata da tutti quegli autori più o meno sensibili alle specificità e ai meccanismi dell’arte musicale. Nei casi più interessanti, ad esempio, può accadere che si senta più acuto il peso della lingua, con il suo carico di contingenza storica e il suo portato di materiale limitatezza, che si perda fiducia nelle possibilità conoscitive offerte dal linguaggio e che, in ultima analisi, mai si arrivi ad accettare in maniera del tutto pacificata che la parola poetica, considerata come ontologicamente imperfetta, non sia in grado alla fine di spandersi e dissolversi nel ‘puro suono’.


In proposito, uno dei nomi che si fa spesso è quello di Giorgio Caproni, il quale non si è mai tirato indietro dinanzi alle occasioni di chiarire certi passaggi fondamentali che hanno segnato l’elaborazione di un linguaggio poetico estremamente riconoscibile, sempre più incisivo e al tempo stesso inafferrabile (come sospeso, rarefatto), sforzandosi di fornire, nel corso di interviste [2] e pubblici interventi, chiavi di lettura indispensabili per accostarsi ai suoi versi che, beninteso, si nutrono di uno scambio continuo tra le due discipline, musica e letteratura.


Vale la pena, a questo punto, di riportare alcune parole dello stesso Caproni, tratte da un intervento risalente al 1986, in cui è possibile rinvenire il significato profondo di un percorso poetico e letterario vissuto all’insegna di una costante ‘nostalgia della musica’: «I miei studi cominciarono nel campo della musica, voglio dire i miei studi regolari, perché per tutto il resto sono un irregolare, e quando mi accorsi che verso la musica avevo una vera vocazione allora l’abbandonai e continuai a fare il ‘paroliere’. Penso però che la vera forma d’arte, di vero pensiero, sia la musica soltanto, la musica per me è la suprema espressione di pensiero, il pensiero senza la contaminazione della parola, pensiero puro. […] La musica va oltre la parola. […] Sono quindi un musicista mancato che fa il  ‘paroliere’» [3].


Come si sarà notato, ciò informa, da una parte, della progressiva sfiducia del poeta nei confronti della parola e, dall’altra, fornisce informazioni utili per interpretare correttamente la presenza costante di suggestioni di tipo musicale all’interno dei versi caproniani, specie nei libri dell’ultimo periodo (Il muro della terraIl franco cacciatore, Il conte di Kevenhüller), nella cui costruzione interna è possibile intravedere un esplicito rimando ai moduli propri del libretto d’opera e in cui i riferimenti continui alla dimensione musicale si infittiscono fino ad assumere e acquisire un carattere strutturale.


In merito al primo aspetto, si segnala un testo de Il franco cacciatore (1982) nel quale l’autore, mettendo a punto una sorta di analisi metalinguistica estremamente lucida e incisiva, esibisce tutto il suo scetticismo dinanzi all’ipotesi che le parole possano aderire concretamente alle cose:


     Le parole. Già.

     Dissolvono l’oggetto.

     Come la nebbia gli alberi,

     il fiume: il traghetto.


Oppure si consideri il brano seguente (da Poesie disperse postume):


     La mia ricerca è tutta

     a lume di candela. Duole

     come nella mente duole

     il muro delle parole.


O ancora una poesia, Gastronomica, tratta da Res amissa (1991):


     Le parole vive.

     Le parole ardenti.

     Le parole mute

     rimaste tra i denti.


Riguardo al secondo aspetto – relativo al ritorno ossessivo di elementi musicali – il numero di testi che si potrebbe citare è sorprendentemente vasto. Tra gli esempi più celebri, in cui si riscontra un uso disinvolto di tecnicismi di origine musicale e un impiego metaforico della dimensione armonica, vi è un componimento de Il muro della terra (1975):


     CADENZA


     Tonica, terza, quinta,

     settima diminuita.

     Rimane così irrisolto

     l’accordo della mia vita?


Si leggano, infine, alcuni versi da Il conte di Kevenhüller dove, sin dal titolo, appare esplicito il richiamo alla librettistica:


     ARIETTA DI RIMPIANTO

     (Per voce tenorile)


     Entravo pieno d’allegria,

     nel colmo della tempesta.

     Il buio dell’osteria

     era ardente. Lesta

     come sempre, al banco

     appariva di fuoco

     la mia bottiglia. Un gioco,

     per me, mischiarmi al branco,

     lasciata ogni malinconia.



*


[1] http://www.lellovoce.it/Avviso-ai-naviganti-Gabriele.

[2] Ora raccolte nel volume Il mondo ha bisogno di poeti. Interviste e auto commenti. 1948-1990, a cura di Melissa Rota, Firenze University Press, 2014.

[3] Ivi, p. 429.


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Immagine di copertina: Lawrence Alma Tadema, Saffo e Alceo, 1881 


22/03/2023

Il tempo e la phoné

I POETI E LA MUSICA.
IL CASO CAPRONI

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