Inediti
PAKY FERRARA
Paky Ferrara è un giovane di 26 anni già con una lingua che avanza e si afferma, tracotante. Ha la tracotanza naturale delle densità e delle contorsioni. Una lingua che tende alla prosa poetica. Qui le prosette entomologiche ed ornitologiche sostengono chiaramente un contenuto di dolore: il dolore di un bambino nel suo primo incontro con la morte. A volte un atteggiamento di compassione creaturale, a volte un osservatorio che pretende di riportare l’inafferrabile della disgregazione corporea nella sua originalità. Impresa ardua anche addentrarsi in questi dedali fonematici. La sintassi si contorce, i versi si districano in periodi lunghi. C’è un desiderio di aria più che di luce. Paky nel labirinto respira attraverso intercapedini. La luce gli viene dall’impasto stesso della sua materia: il sordido del corpo, l’amore come colpa, gli inferi come necessario soggiorno. Eppure in ogni suo luogo Paky sembra svegliare sempre un po’ di luce, raggi sparsi come il sole nelle cattedrali attraverso le vetrate del primo pomeriggio.
Alfonso Guida
UNA PROSA ENTOMOLOGICA
Autunno. Questi fuchi si preparano a finire, lasciare ogni innervatura, devota al segreto del fecondo. Hanno penato da larve per farsi elitre in cerca di una regina da saziare. Ora si riposano attendendo appoggiati l’irrigidimento del dopo. Scelgono vetri per lo più, per lasciarsi studiare da ogni lato, creare un panopticon della fine e del suo serenissimo farsi complice al corpo. Ma forse è solo la riduzione in scala di un dolore, un’attenzione a cui abbiamo sostituito la masticazione dell’acritico orrido. Oppure l’insensibilità senza lente, senza avvicinamento di volto contro particolare o disegno di sindone e innervazione. Un codice in cui mi perdo da quando da piccolo sfogliavo le tavole entomologiche – il libro spaginato di mio padre da cui apprendevo la fragilità del mondo nei suoi esseri, segmenti di delicatezza e, poi, la fragilità del dire, se a tenere uniti scienza e materia sono fili sdrumati. Mi commuove questa segreta performance di addii. Digiuni allestiti per non resistere. Il poeta in limine vitæ.
UNA PROSA ORNITOLOGICA
Vorrei essere uno storno, orientarmi in libertà nel loro nugolo migratorio. Risentire la concordanza delle parti sociali. E invece sono un passero solitario, accuso la diversità seduto ad un tavolo. Appena ritorno solo è nuovamente preziosa fenditura del senso, più spesso del sesso. Ieri ho fumato una sigaretta a mare, avevo la vertigine dell’orizzonte, inaccettabile da vedere, odiabile... non riuscivo a sostenerne l’ininclinabile spezzata, immutabile. Allora, fissavo solo una piccola polla, limpidissima, come l’estate non regala mai tra i piedi dei pigri babbuini che le imbrattano risollevandone la feccia gravitata. Trasparente, ci ho messo in infusione l’anima. Un’immagine dell’Eliso. Era il Giordano, l’acheronte mai più attraversato da anime, un fiume gentile, la fonte bandusia e pure quelle del Clitumno. Si sono seduti Battista da un lato e Petrarca dall’altro. Battista ha voluto un’altra sigaretta. L’orizzonte è limitato.
SULLA STRADA PER MONTEMILONE
«Quanti animali morti!» dice a sé
nell’abitacolo che scompare
dove la luce dei fari ci solleva piante
sui bordi, ai lati di una strada
che tra sterpaglie e fragilissima
serenità si apre. Quanti animali morti
cadaveri ho dentro, penso io, disseppelliti
come il giorno o la memoria richiede.
La radio è spenta per non perderci
sulle mappe indolori della famiglia
delle proprie sirene. Perdono a sinistra
le due stelle che non guardo in alto
raminghe della loro immobilità
nella mia vuota storia senza mutamento,
se la punteggiatura degli anni è cosa minima.
Una pietra ferma. Una croce innalzata
dalla fatica di non farsi simbolo,
qui dove non passerò, annullato dal mio buio.
Ma nulla si muoverà di qui, già andato.
A parte l’occhio segnaletico sul ciglio
di una volpe investita che restituisce un lampo
dal sorriso di morte, aperto
come un figlio.
***
Sette ore più 30’ di ritardo
conta la tortura ferroviaria
per andare da lei, mia sorella,
da un capo all’altro dell’Italia
non percorro altro che una retta
su cui spunta di tanto in tanto
un’impalcatura di realtà vera,
una stazione ferroviaria, un cartello
con scritto Reggio Emilia, ma
ad essere onesto, più di tanto
neanche ci credo, se non ci metto piede,
alla visione temporaneamente
trasmessa oltre l’opaco schermo,
a quei volti che guardano nel treno
il gioco di prestigio della sua partenza o meglio
scomparsa; ma passo al prossimo metro
al prossimo metro fino alla stazione
d’arrivo. San Tommaso del mio mondo
devo mettere le dita nelle piaghe
per dire che quella gente esiste, esiste
in un altrove che mai proverò
e forse già mi perdona, se chiedo
la prova che sia il treno a muoversi
oltre questa diapositiva che mi sposta
da me verso il me supposto
ma al solito posto in un punto
che mi crede e mi vuole già ipotetico
già ignoto corpo.
20/11/2020