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di Giacomo Leronni
Di una scrittrice del calibro di Margaret Atwood, una delle più importanti del nostro tempo, più volte candidata al Nobel per la letteratura e ultimamente diventata ancora più popolare a causa della serie televisiva tratta da uno dei suoi libri di maggior spicco (Il racconto dell’ancella, da cui è stata appunto prodotta The Handmaid’s Tale), sarebbe forse giunto il momento di approfondire la cospicua produzione poetica (peraltro precedente alla pur rilevante, ma successiva, vena narrativa), magari a partire dall’essenziale ma densa ricognizione effettuata nel volume Brevi scene di lupi. Poesie scelte (1966-2020), curato da Renata Morresi e pubblicato pochi mesi or sono da Ponte alle Grazie. Diciamo subito che in Italia è piuttosto raro rilevare esiti altrettanto significativi nel campo narrativo e in quello poetico all’interno della vicenda letteraria di un medesimo autore. Il caso della Atwood, assieme ad altri casi altrettanto perspicui di cui ci occuperemo nei prossimi mesi, dimostra che altrove non è così e che ci sono nature particolarmente versatili, capaci di colpire nel segno in entrambi i territori e di lasciare comunque, dietro di sé, tracce incancellabili.
Sulla scorta dei versi della Atwood, ci riconosciamo come aggregati senzienti densi di mistero che a un certo punto, nonostante tutti gli sforzi fatti, svaniscono senza giustificazione e, soprattutto, senza aver imparato («C’era qualcosa che mi avevano quasi insegnato. / Venni via senza imparare», pag. 31). Gli esseri umani si logorano e collidono per far quadrare conti che non torneranno mai. Questo nucleo concettuale, che trova una icastica rappresentazione nei due versi citati, è utile per aprirsi un varco attraverso la lussureggiante e infida foresta del quotidiano: è lì che raccogliamo i brandelli, apparentemente insignificanti, delle nostre vite, nella contiguità con il mito, con le tempeste della storia, con il potere segreto del linguaggio e con le piccole e grandi angustie dei giorni passati, presenti e a venire. Formalmente, quella della Atwood è una poesia di tutta evidenza (e anche di agevole lettura, per ampi tratti) che però si rivela, nello stesso tempo, costantemente spiazzante. La verità della nostra condizione di uomini e donne ci viene rivelata senza condizionamenti e senza infingimenti, nella sua dolorosa tangibilità. E però, dopo aver letto, dopo aver constatato con i nostri occhi e i nostri sensi che le cose, purtroppo, stanno così, non di rado si ha l’impressione che la verità sia anche un’altra.
Siamo qui in quanto esseri segnati dal daimon, dalla ricerca del nostro lupo interiore, a cui offrire le nostre viscere palpitanti, le nostre «ossa tenere», ammorbidite dalle prove e dal tempo. Ma il demone a cui tendiamo con tutte le forze – ed è qui la radice del nostro dramma esistenziale – potrebbe non avere alcun bisogno di noi: «Vuoi vedere il lupo / o avere i soldi indietro, / ma il lupo non vuole vedere te» (pag. 137). Come dire che il nostro essere creature mortali e transitorie non potrebbe essere più assoluto e assiderante.
***
Il cucchiaino nel caffè
vorrebbe imporsi, attestare
in qualche modo
la sua insignificanza.
Fu lì che il signor Wells
si confuse con la notte.
E lì Fiona passò a consolarlo
rivestita dell’aria del mattino.
Dopo il taglio lui prese a sinistra
verso il cerchio di case
che finge di essere un paese
sul limitare del bosco.
Aggiungo anche i corvi e
con la perla della sera
l’odore dei lupi.
Bevvero tanto perché nulla
si schiodava dall’afa.
Il cucchiaino finì a destra
invece, con Lazarus passato
a salutare. Non aveva un padre
e il signor Wells
era la sua carta assorbente.
Lazarus non vide nulla perché
nessuno di noi, in realtà, vede.
E comunque prestiamo attenzione
ai particolari: sono loro, infatti,
che appiccano il fuoco.
***
Da qualche parte discettiamo
sui poeti. In quel momento
abbiamo sul capo un cappello
più giù la camicia a quadri.
La fretta ci porta a incespicare:
forse i poeti se n’accorgono
forse no. Il mattino non bada
a noi, né a loro.
Lo sproloquio prosegue a oltranza.
C’è questo da fare e quest’altro.
Si deve aprire una finestra
o non si deve, meglio sarebbe
mettere al sicuro la borsa
prima di dettar legge
l’anima prima di parlare.
Sono sornioni in genere.
Anche noi lo siamo.
E ammicchiamo al giardino
ai nostri partner, alla densità
dei colombi.
Quanta approssimazione
capisci? E in tutto questo
ti senti pronto a spingere
il padre nel vuoto
per dominare la scena.
Questa inutile ansia
di sapere, di dire.
Forse invece è il caso
di lasciar stare la poesia
dov’è: si estinguerà
più tardi
(saprà farlo da sola).
*
Immagine di copertina: Henri Rousseau, Spiacevole sorpresa, 1901
05/07/2021