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di Giacomo Leronni
Dopo esserci occupati, in passato e in non pochi casi, di poeti/scrittori che sono riusciti ad agire convintamente su entrambi i versanti della loro scrittura, con Thomas Bernhard ci troviamo di fronte a un poeta di prima grandezza il quale, dopo le tre raccolte pubblicate negli anni giovanili, ha quasi abbandonato la poesia (ad eccezione di fugaci incursioni successive, comunque accompagnate da una certa insofferenza) per dedicarsi alla narrativa e al teatro, i generi che lo hanno definitivamente consacrato. I tre testi di riferimento per porsi al seguito di Bernhard lungo il sentiero della poesia sono Sulla terra e all’inferno (del 1957), In hora mortis e Sotto il ferro della luna (raccolte pubblicate entrambe nell’anno successivo, 1958). All’età di 50 anni, nel 1981, Bernhard pubblicherà poi l’ultimo suo libro di versi, Ave Virgilio. Carme, che in Italia appare dieci anni dopo, per i tipi di Guanda.
Un po’ tutta la poesia di Bernhard e, soprattutto, quella contenuta nell’opera che abbiamo scelto come punto di riferimento (Sotto il ferro della luna, Crocetti 2015) è una poesia che nega un qualsiasi approdo rassicurante al termine dell’esperienza/esistenza: l’uomo si ritrova costantemente faccia a faccia con il dolore e la morte, in un contesto apparentemente bucolico e comunque straniante, in cui i referenti nella natura, gli oggetti, gli individui non forniscono alcuna rassicurazione e, anzi, ci guidano in tutta evidenza verso un destino di spoliazione e annullamento. Anche il confronto con Dio, sempre sotteso e mai eluso (ma, comunque, non risolto) non consente di toccare rive salve, dopo le bracciate scomposte con cui cerchiamo di restare a galla. Il nostro quotidiano non lascia respiro né requie. E la presenza di Dio, che per Bernhard è ovunque, risparmia al poeta austriaco la facile consolazione di un credo, composto o scomposto che sia: la sua stessa evidenza, infatti, rende impossibile credere in lui. E, se non si può credere in Dio, non ci sono miracoli. Anzi, qui i miracoli, in senso lato rappresentati proprio dall’incontro costante con la natura (benefica solo a prima vista) e con la sua accattivante mestizia, non fanno che confermare la morte, le assegnano una dimensione che la fa apparire allettante, quasi desiderata (in Bernhard la morte ha una funzione liberatoria: è un’ossessione fra le tante, ma anche l’unica fonda certezza) ma non meno ferma. Dio non solo c’è, Dio ascolta. Ma non può nulla: noi siamo ugualmente condotti alla disperazione, alla dissolvenza, allo scompaginamento di ogni velleità, tanto artistica quanto umana.
«Ecco che la morte mi raggiunge / sopra il campo, stanca...» (pag. 115): la stanchezza della morte nel compiere la sua opera è anche la stanchezza della specie a cui apparteniamo, in trappola da sempre, riottosa, recalcitrante, che sembra dimenarsi in ogni direzione senza liberarsi mai e costretta, pur di sopravvivere, a immergersi continuamente nella menzogna. Tutto ciò che ci circonda è sé stesso e, nello stesso tempo, non lo è. La natura è un’anti-natura e ciò che appare un idillio è dissenso, dissidio, urto, lacerazione. Respiriamo per consentire alla morte di proliferare, posseduti da slanci che non ci fanno avanzare di un passo. Siamo, eppure già non siamo più e, presto, non saremo mai stati: «La tua valle / si dimenticherà di te. / Non torni, / mai più» (pag. 51).
Nei suoi esiti, ma anche nel suo procedere, Bernhard è un poeta brutale. Dunque un poeta utile. Averne tanti di cantori spietati dell’essere e del non essere (all’essere consustanziale), di propagatori del tormento di chi cerca un’indefinibile definizione della nostra vita-non vita, di meticolosi censori del nostro respiro disfatto, che non temono di mettere in chiaro che l’umanità si dà come il contrario di sé proprio mentre è. E che da questo dramma non si sfugge.
***
Nella notte ci hanno infangato
si sono cibati
della nostra desolazione.
Il gufo ha curato i suoi piccoli
fino all’ultimo.
Poi ci ha reso omaggio la pioggia
e qualcosa di più plumbeo
una divinità eccitata dal fuoco.
La successione dei tributi
non ha impressionato alcuno.
Forse eravamo morti anzitempo
un vento che strepita
contro finestre guaste
o forse il male
guadagnava la riva
nuotando con noi
dimesso e feroce.
***
Sono stato a lungo un vuoto.
Ora che siedo nel mio giardino
lo sono ancora. O inviolate
cime dell’attesa... Il grido
del lattaio dietro la curva
ci ritrova bambini
avvolti dall’inverno
animali inconsapevoli
che banchettano con sollievo.
Poi quella morte si è fatta
più in là, ha accalappiato
il credo di altri. Il vuoto
non è ringraziare
una cupa forma qualsiasi
vorace e silenziosa
ma fidare nel bosco che si erge
dal marmo bianco
con lui svanire.
*
Immagine di copertina: Francis Bacon, Figura seduta, 1974
10/10/2024