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di Giacomo Leronni
Voi non sapete che non ho paura (Garzanti, 2020) di Ludovica Ripa di Meana è uno dei volumi più interessanti del panorama poetico italiano degli ultimi mesi. Innanzitutto in quanto evento ‘ibrido’, che mescola sapientemente poesia e prosa, volontà e casualità della scrittura, la quale è però sempre lucida, acuta, illuminante («rendi chiara la mente, aguzza il cuore, / attizza te con gli altri e con la luce…», pag. 194). Il libro, nel suo incedere, si rivela complesso e affascinante. E la complessità, nonostante i segnali allarmanti di senso contrario, rappresenta un territorio che la poesia dovrebbe ancora privilegiare. In questo caso il distillato è ottenuto – come segnala Davide Tortorella nell’ottima introduzione – attraverso un’intelligente operazione di rammendo e ricucitura che recupera (restituendogli piena dignità letteraria) appunti apparentemente dimenticati o stipati in attesa di tempi migliori che, si sa, non arrivano mai. I poeti, peraltro, dei tempi migliori non hanno alcun bisogno. Sorvolando sui numerosi altri piani di lettura (ad esempio il profondo rapporto che legava l’autrice a Vittorio Sermonti), non si può non accennare a quella che potremmo considerare la relazione acuminata con Dio, di cui tutta l’opera è pregna. Quel Dio che è un altro dei grandi scomparsi dall’orizzonte poetico contemporaneo. Di questo incontro/cozzo con Dio si offre qui una campionatura molto esigua, che si spera possa stimolare a fondo i lettori, anche per le ovvie implicazioni di carattere filosofico e teologico: «Essere umano vuol dire sapere Dio? Saperlo vuol dire anche non crederci: è inestricabile dall’essere, dunque?» (pag. 360); «La parola Dio è un vasodilatatore della conoscenza dell’essere» (pag. 370); «sono: coincidevo con l’essere che era Io; ora sono perché penso dico la parola Dio» (pag. 372). Che sia possibile ravvisare in questa onnipresente relazione con la divinità – che non nasconde i suoi continui alti e bassi – la vera chiave di volta dell’opera? È quello che ipotizzo nei versi che seguono, omaggio/commento/risposta a un libro che resterà.
***
Ogni tanto incappiamo in Dio.
La sera un giuramento transitorio
che non approda.
A prescindere dai forti, dai tonanti:
negarlo, che uccide e dona vigore.
Negare l’incudine dei nomi:
lune orride
spire che risalgono fino agli occhi
e contornano
una nebbia senziente.
Ogni tanto, per essere fraintesi.
Ciò che non esiste preme più forte
si fa acuminato, bracca ovunque
la mente.
Ottenebrato, insulso come un uomo.
Rivelato dalla luce negata
o non rivelato, questuante
che si oppone. Dipende
da cosa volete farne.
Masticate la vostra negligenza
usurate ancora il volto
come per scommetterlo
virate verso il buio:
per Dio, siate voi i segreti.
***
Il sacro si sporge dal paravento
mormora, sana il ciliegio
passa dalle bocche che non possono
contenerlo, s’impicca
per un solo occhio di peccato
fantasmi in questa casa di vento
lo ripongono come una veste
che ha bisogno di riprendere fiato
si può volare quanto si vuole
in controluce
disarmonicamente, nulla
ha peso
l’anello infilato nel cielo
la porta chiusa che dorme
col suo nome
non combaceremo
algidi angoli del fuoco
spigoli a fondo nella musica
e questa bava del divino
impressa nelle menti
riconoscibile ovunque
siamo liberi di salutarlo
tanto crepa lo sappiamo
un suono che vaga sotto i meli
l’acqua che sembra non comprendere
un passo ancora, occulto
per sacramentare contro le stelle.
17/11/2020