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di Giacomo Leronni
Abbiamo poeti capaci di arpionare la morte in vita, macinando l’esistenza con foga, così intensamente da essere inarrivabili. Ci giungono, a tratti, i loro respiri confusi nel buio, le scorie del loro scavo nel deserto del quotidiano, finanche sprazzi della vertigine a cui sono avvinti, come un fiore implacabile nato per tutti e per nessuno. Ma, nonostante queste tracce evidenti, che sono anche, in qualche modo, nostre, avvertiamo, sappiamo di non poterli raggiungere, di non poterli abbracciare un’ultima volta prima del vuoto.
Uno di questi poeti, ben saldo sul crinale che separa l’apparenza dell’essere da ciò di cui l’essere effettivamente si sostanzia, è Simone Cattaneo. Il quale morto, come tutti i veri poeti e a prescindere dalle circostanze di tale morte, nel momento giusto per lui, sopravvive più di altri (e magari contro il suo stesso volere) grazie ai cupi slanci della sua luce riottosa, che si è declinata qua e là in scrittura. Ne è completa ed ineludibile testimonianza il volume che comprende la sua opera in versi, Peace & Love, edito da Il Ponte del Sale nella meritoria e ormai da tempo imprescindibile collana «La Porta delle Lingue».
Incespicare nella morte è esperienza ordinaria, purtroppo frequente e, come sappiamo, irreversibile. Ma al poeta, rispetto all’uomo comune che semplicemente la subisce, rimanendone schiacciato, è data la possibilità, grazie al linguaggio, di conferirle altri nomi, di ridefinirla. E la morte, blandita da una sapienza incoercibile, che trae origine dallo sforzo stesso di assumerla a inusitato paradigma, non in nome della vita, come verrebbe da pensare, ma quasi contro la vita stessa, in qualche modo cede e rivela ciò che veramente è. Noi non siamo abituati a questo. Non siamo pronti a questo. Proprio qui invece il poeta che ha da dire s’incaglia e, prima di dissolversi, prima di lasciarsi assumere da ciò che è oltre lui e a cui non può resistere, ci consegna gli scisti della sua esperienza, lascito estremo e gravido di conseguenze.
In questa poesia la dimensione verticale (l’ascesa verso il nulla) e quella orizzontale (il tutto apparente, l’attrito continuo che comporta il nostro stare qui e ora) coesistono mirabilmente e il gravoso avanzare di Cattaneo verso il vertice, senza mai concedere sconti a se stesso, sbucciando e risanando di continuo la mente che non si stanca di indagare ciò che gli frana intorno, ha un che d’implacabile e impietoso a un tempo. Qui comprendiamo, accostandoci con trepidazione a ciò che ruggisce nell’oscurità dei nostri gesti e nell’incomunicabilità che è l’esito più marcato del nostro progredire di fatto in fatto, che questa umanità lacerata che alcuni riescono a contemplare dall’alto, esausti per lo sforzo compiuto, è la stessa che campeggia ovunque nel nostro io lacerato, la stessa che ci dona la possibilità di essere sostanza e che, nello stesso istante, ci perde. È qui che tutti rimaniamo, confitti in una lingua allucinata che tanto più supera se stessa quanto più aderisce al vissuto e si materializza nelle cose che contornano la nostra evidente impossibilità ad essere. Ed è qui che tutto si conclude, in quel vacuo dimenarsi che solo per pochi istanti nasconde lo smacco di essere donne e uomini destinati all’usura, al logoramento, allo sfinimento.
***
Rigiro fra le mani il vostro fetido cuore
che forse è anche mio.
Mi candido per questo sale.
Che ne sapete del vetro mantide
e in generale che ne sapete degli altri.
Nel mentre i condòmini ciarlano
a tratti con foga e qualcuno
precipita con il mozzicone
dal terrazzo. I volti blu
saranno succhiati dalla sera
all’incrocio dei permessi disattesi
dell’ombra per il troppo temporale.
C’illudiamo di essere parlanti e scriventi.
Così invece anche oggi
abbiamo massacrato la domenica.
***
Quasi mi vergogno ad essere così vivo
con un passo di qua e uno di là dal mondo.
In fronte un chiodo d’ambizione.
Discorsi percepiti di sghembo alle fontane
dove tutti accorrono sconsacrati.
C’era anche un po’ di neve l’ultima volta.
Allora venite qui e portate il desiderio
così lo sgozziamo insieme.
Sempre vi lascerò per primo
per dileguarmi in un azzardo
in cui non potrete raggiungermi.
Tonti o ciechi, così per dire.
E qui fate accomodare la morte
incapace di asciugare.
Inutile perdersi e poi ritrovarsi
dove nessuno veramente ci conosce.
*
Immagine di copertina: René Magritte, Le fantasticherie del passeggiatore solitario, 1926
02/11/2021