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Non avere una geografia
significa avere tutto,
avere l’arte di creare cose che non ci sono,
godere della gioia della perdita
prima ancora dell’approdo
e soffrire per un porto mai raggiunto.
Sognare sempre.
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Sai che è un appartenerci
gli sguardi sulla nave.
Tu in fondo al ponte,
io nell’altro fondo.
Appartenerci fino ad essere uguali
fino al limbo della discesa,
per fissarci
– per un ultimo incontro –
e perdersi poi.
Eppure lo sguardo si rigenera,
si sostituisce con un altro
e poi ancora un altro
fino a non sapere chi siamo
chi amiamo.
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Il purgatorio è farsi lingua,
sgusciare le parole, ridurre la propria carne
alla polvere della stratificazione, amare
la contraddizione, e annientare – alla fine –
il legno delle ossa, poi respirare quel fumo
fino a dimenticare ogni distinzione.
Virtù è un sostantivo femminile
che ha “uomo” come radice,
illusione del vuoto e sostanza del doppio.
La sapienza dei morti – invece –
è stare lì dove sono
senza un passo che sciolga la cenere.
Lì, nell’attesa che qualcuno si accorga
che ogni lettera incisa fa un solo nome.
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Alla fine arriverà il buio a salvare la città,
i suoi crepacci e le ortiche cresciute per le strade.
Dietro i bastioni, le rotte della memoria
anche loro a cercare una fermata sulla banchina.
Sarà – dice qualcuno – che una danza muta
rivela il solfeggio originale, forse per scrivere
un finale che non allarga la crepa e custodisce
l’ispirazione. Eppure solo le promesse dell’inclinazione
mantengono gli sguardi in sospensione,
la ricerca di una reliquia di sé per avviare
la propria scissione pluricellulare.
Tutto si risolverebbe così nel ritorno alla perfezione.
Ma il buio non salva la città e neanche i lampioni
a segnare il tracciato. Che fare – mi chiedevi –
di questa sospensione?
Alzare gli argini, forse proteggere le mani,
cucire la solitudine (mia, tua, di tutti),
solleticare il caso, se mai esiste.
Non è bastato controllare gli ingressi per conoscerci,
meglio restare seduti al tavolo e continuare.
Giuseppe Manitta è nato a Seriate (BG) e vive a Tivoli (RM). Partito da interessi leopardiani, ha esteso le sue ricerche da Boccaccio al Novecento. Si è occupato del petrarchismo cinquecentesco di Antonio Filoteo Omodei, del quale ha individuato le Rime in un codice vaticano di prossima pubblicazione in edizione critica. Tra le sue monografie si ricordano: A partire da Boccaccio (Mursia, Gruppo Mondadori, nona edizione nel 2020); Noi e il mondo. La novella italiana da Pirandello a Calvino (Mursia, Gruppo Mondadori, terza edizione nel 2011); Giacomo Leopardi. Percorsi critici e bibliografici (1998-2003) e Giacomo Leopardi. Percorsi critici e bibliografici (2004-2008), nonché miscellanee su Boccaccio e Carducci, con Il Convivio Editore. Per Mihai Eminescu e la “letteratura italiana” (Il Convivio, 2017) il Presidente della Repubblica Moldova gli ha assegnato il Premio Eminescu per meriti culturali nel dialogo intereuropeo. Di poesia si ricordano Gli occhi non possono morire (Italic Pequod, 2018, con prefazione di Corrado Calabrò) e L’etica dell’acqua (Avagliano, 2021, con postfazione di Marco Sonzogni). È il direttore della rivista accademica «Letteratura e Pensiero» e collabora a varie riviste specialistiche tra le quali «La Rassegna della Letteratura Italiana». Ha curato le indagini bibliografiche su Leopardi per il «Laboratorio Leopardi» dell’Università La Sapienza di Roma. È critico letterario del quotidiano «Conquiste del lavoro».
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Fotografia © David LaChapelle
16/05/2022