L’infanzia si conferma Weltanschaaung e mitologia. Le falistre è un libro che resta più di tanta poesia senza polvere né storia che vediamo sorgere. Poesia decisamente controcorrente per toni e stile. Un Munaro inedito, una figura che torna dal cerchio nel cerchio e si rinnova voltandosi. Eppure non appare nostalgia. Il passato lontano è un emisfero dell’hic et nunc e ritrova la sua narrazione fiabesca e una memoria mai troppo calcinata negli inciampi del sentimento. Il titolo porta arie crepuscolari. Le falistre, cioè le faville, è ciò che della vita ancora vuole emergere e, dunque, vivere. La ‘cinigia’, parola antica e moderna, è un fuoco ancora vivo che resiste per l’intera notte sotto la cenere e, all’alba, resuscita, risorge, procreando, fuoco che feconda e fiamme del nuovo giorno. Nel focolare dei bambini torna una lingua enigmatica e atavica, un dialetto, quello dell’altopolesano materno, una parola ricca quanto le sue suggestioni. Ecco allora apparire la sfrontatezza di certe filastrocche sublimatorie, vecchie nenie del sonno e della sera, i Mistieròi del caro Zanzotto. Nella favola non c’è solo l’orco che sale le scale al buio e spaventa il compagno Massimo, ma anche lo spazzacamino e il rito della saponificazione e del bagno, il sabato, un’aria quasi di iniziazione, la coscienza del proprio corpo in fieri e dei primi rifiuti amorosi. È un’infanzia che ride con la vis comica della meraviglia e della tenerezza. Marco tesse così le sue tele di canti marini e musivi con pudore e mai nel vortice. È la parola adulta che con discrezione chiede al bambino: «E ora che mi hai visto, cosa ne farai di me?». Le falistre è un libro di risposte.
Alfonso Guida
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Simonetta, tornando a casa
da scuola ti prego non piangere
se il vento soffia e la pioggia nera
che entra nelle pozzanghere ci bagna
tanto poi il papà e la mamma
ci metteranno nella mastella
l’acqua bollente fumante,
ti guarderò la passeretta.
***
Tra la chiesa e il campanile
c’è l’asilo, c’è un cortile,
ecco il bar, le scale, via!,
c’è la casa della zia.
C’è una porta sempre chiusa:
che si trovi là, la Musa?
C’è una stanza stretta e scura:
topi, e libri di lettura.
Lo zio Giulio, la Rosina,
zio Tonino, Mariolina,
e Filippo, Giovannino
(gli assomigli, birichino)...
Vivi e morti, tutti quanti
venerati come santi.
Lei ha le gambe malandate,
ma vorrà lo stesso, andate!,
vorrà ridere, ballare,
stare ore a raccontare.
Dove? Ve lo voglio dire.
Tra la chiesa e il campanile.
***
Presto, guarda che perdi la corriera...
Una lunga, dolorosa erezione,
ecco l’ultima curva
e Ostiglia: come si sfogliano i giorni
dal calendario, così i libri, gli anni.
Li senti? Hai studiato?
Mattatoio, si scende.
Marco Munaro, nato a Castelmassa nel 1960, vive a Rovigo dove insegna. Si è laureato a Bologna in Lettere moderne nel 1984. Nel 2003 ha fondato «Il Ponte del Sale – Associazione per la Poesia». Ha pubblicato le raccolte poetiche: L’urlo (El Levante por el Poniente, 1990), Cinque sassi (Edizioni della Cometa, 1993), Il Rosario del Lido, in 5 Poeti del premio “Laura Nobile” Siena 1993 (Scheiwiller, 1995), Il portico sonoro (Biblioteca Cominiana, 1998), Vaso blu con narcisi (I quaderni del circolo degli artisti, 2001), L’arciere piumato (La Vencedora, 2015), Le falistre (MC, 2021) e, per il Ponte del Sale, Ionio e altri mari (2003), Nel corpo vivo dell’aria (2009), Berenice (2014), Ruggine e oro (2020). Ha tradotto Rimbaud e Virgilio. Suoi testi sono tradotti in spagnolo, polacco, finlandese e inglese.
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Fotografia © Ernst Haas
06/05/2021