J. RODOLFO WILCOCK
Poesie scelte
***
Chi non ha nome non può morire,
la bestia ignora il proprio nome e vive,
chi non ha la parola non perisce.
Chi non ha lingua non si iscrive nel libro
che a alcuni metri dalla terra gli uomini
scrivono, il libro delle defunzioni.
La rete del linguaggio li sostiene
e appesi in aria come trapezisti
fanno nell’aria dei salti di morte,
mentre la vita è sotto nel silenzio
dei vegetali immortali e gli insetti
che senza tempo vivono per sempre.
La terra morte non vuole né conosce,
perciò la morte comincia a certa altezza,
sul mare a cinque, sui boschi a trenta metri.
A mio figlio
Abbi fiducia nella vita
e non nelle ideologie;
non ascoltare i missionari
di quest’illusione o quell’altra.
Ricorda che c’è una sola cosa
affermativa, l’invenzione;
il sistema invece è caratteristico
della mancanza d’immaginazione.
Ricorda che tutto accade
a caso e che niente dura,
il che non ti vieta di fare
un disegno sul vetro appannato,
né di cantare qualche nota
semplice quando sei contento;
può darsi che sia un bel disegno,
che la canzone sia bella:
ma questo non ha certo importanza,
basta che piacciano a te.
Un giorno morrai; non fa niente,
poiché saranno gli altri ad accorgersene.
***
Vivere è percorrere il mondo
attraversando ponti di fumo;
quando si è giunti dall’altra parte
che importa se i ponti precipitano.
Per arrivare in qualche luogo
bisogna trovare un passaggio,
e non fa niente se scesi dalla vettura
si scopre che questa era un miraggio.
Due
Con me il mio mondo sparirà, la rete
che mi sono tessuto come un ragno
che sta fermo in un angolo della tela
e a volte mangia e a volte la rammenda;
ma la sua tela è sempre più squarciata
e il ragno non ha voglia di aggiustarla.
Proseguiranno intanto gli altri mondi
ognuno col suo insetto in mezzo vigile,
trame lucide oppure matasse grige,
sferule come gabbie delicate
che non si danno pace e in mezzo il ragno
finché sparisce e nessuno se ne accorge.
Ma tu, già che hai voluto fare anche tuo
questo mondo che fu forse il più bello,
irto di spilli d’oro e fibre fine,
stringiti a me, avvolgiti nella stessa
rete complessa che non si ripete,
filo a filo possiedila e sorreggila
come ho fatto finora ch’ero solo.
***
Noi fatti di parole e di null’altro,
noi fabbricati a caso da un linguaggio,
ci domandiamo perché soltanto noi
dobbiamo essere uccisi da un linguaggio,
mentre le bestie vivono, le piante vivono,
e noi si muore grammaticalmente,
ma anche le bestie e vivere sono parole,
né ci deve stupire che una parola
o gruppo di parole siano parole,
stupisce invece ch’io sia parola
o gruppo di parole dette dal niente
al niente, e come dette, e quando e dove?
ma come, quando e dove sono parole,
stupisce invece che una bestia o un verme
mangino a volte un gruppo di parole
o un frammento di gruppo o un pezzo d’io
pur essendo parole bestia e verme,
ma anche mangiare è solo una parola,
né ci deve stupire che tra parole
qualcosa avvenga a volte con parole,
stupisce invece che un io abbia paura
di scomparire quando è una parola,
ma scomparire grammaticalmente
capita così di rado alle parole,
che io può durare all’infinito,
finché c’è un io l’io ovviamente c’è,
come altrimenti dissero gli indiani.
Tutto il giorno
Tutto il giorno ho rincorso dentro di me
una corrente chiara come le sere d’estate;
l’acqua è verde e trasparente,
tutto il giorno ti ho ricordato.
Vieni, siamo giovani, e qui passa l’amore
fluttuando tra la luna e il vento,
vieni, l’aria concede le tue labbra alle mie;
oh i salici, i salici pensosi!
***
Mostrami il mondo, mostrami la gente,
come una lampada da cinquemila watt
la tua bellezza ne fa un mosaico d’oro
i visi lustri scintillano smalti
azzurri e gialli e verdi, gioielli insomma
e intorno un cielo semplice con palme
e sulle palme pecore di una razza aerea,
e ignari passano trasformati in gioielli
e dico a un tale, «ogni volta che passi
mi pare che rispunta il sole
quindi sono sette giorni che ci vediamo»,
ma so che il sole non è lui, sei tu,
che lo rivesti con quella luce fortissima
di criniere da leone zodiacale,
e tornerà nel buio, come quell’altra
col suo vestito come una candela
avvolta in fiamme rosse su scarpe rosse.
Mostrami il mondo con i suoi cortei,
mostrami gli autobus come una foresta,
mostrami il Tevere dove sembra il Danubio
e la piana dall’altro dei Parioli
dove combattono Massenzio e Costantino,
difatti sono pronto ormai a credere
che il mondo l’hai creato tu,
come di nuovo lo stai creando ancora
con quella luce da cinquemila watt;
e con il mondo avrai creato la storia.
Preghiera al caso
«Possa tutto mutare e non mutarci;
che i nostri cambiamenti siano identici,
le nostre morti simultanee».
Dev’essere un dolore intollerabile
sentir cessare la felicità.
***
Non tutto è stato detto, e ciò che è stato detto
è stato tante volte dimenticato
che il mondo si direbbe appena nato
e la vita dell’uomo, e quella dell’insetto
un universo ancora da scoprire,
e il sole e l’albero che si ostina a fiorire:
tutto è così nuovo e così sorprendente
da sembrare creato di recente.
Ora viviamo con gli occhi nel passato
quasi fosse un futuro da raggiungere;
ma anche il passato è stato creato
qualche minuto prima del presente
non mèta ma ornamento, non precedente
ma complessa decorazione del minuto,
non giudice degli atti ma teste muto.
Siamo qui dunque con la nostra esperienza
logoro strascico di pelurie e rifiuti
sulla soglia sempre dell’attimo rinnovato,
questo dono che a nessuno è negato
di scorgere un paesaggio ad ogni istante,
fra gli archi del presente un mondo luccicante
dove un’idea non fa soffrire,
nel mare immersi del puro percepire.
***
Vieni con me non dico, dico portami.
Davanti a un Santo o a una Madonna chi
direbbe, «vieni, andiamo in Tunisia»?
Ma se l’immagine se ne andasse in giro
chi non vorrebbe accompagnarla, chi?
A trenta metri vedo molto bene,
vorrei seguirti sempre a trenta metri,
e a volte, presso un fiume o una fontana,
avvicinarmi a tanto irraggiamento,
se dormi, se riposi, se sorridi,
per poi la sera chiudermi nel buio
e accertare che splendo anche da solo
e che al di sopra del registratore
col nastro inciso con la tua voce
si addensano apparenze luminose
che in altri tempi si chiamavano angeli,
forme sospese, spiriti apprendisti
che da te vogliono in quei rari paraggi
imparare purezza e tenerezza,
ritegno, verità e altre arti angeliche
mai viste insieme, né in quei luoghi né altrove,
o come si asservisce una nazione
abbassando le palpebre semplicemente.
Juan Rodolfo Wilcock nacque a Buenos Aires il 17 aprile del 1919 – da padre inglese, Charles Leonard Wilcock, e da Aida Romegialli, argentina, di origine italiana e svizzera – e morì a Lubriano, in provincia di Viterbo, nel 1978. In Argentina, dove apparvero i suoi primi libri di versi (Libro de poemas y canciones, 1940; Ensayos de poesía lírica, 1945; ecc.), fu tra i collaboratori della rivista «Sur». In Italia dal 1958, traduttore dall’inglese e dallo spagnolo, collaboratore di riviste e quotidiani, pubblicò opere poetiche, teatrali e narrative, nutrite da una vena fantastica, ironica e grottesca, non esente, negli ultimi anni, da toni cupi e malinconici. Oltre alle raccolte poetiche (Luoghi comuni, 1961; La parola morte, 1968; ecc.), poi confluite nell’ed. post. delle Poesie (1980; 2a ed. ampl. 1993), vanno ricordati, in prosa, Fatti inquietanti (1960), il romanzo Il tempio etrusco (1973), Parsifal, i racconti del «Caos» (1974), L’ingegnere (1975), Il libro dei mostri (1978). Le opere teatrali, parzialmente riunite in Teatro in prosa e in versi (1962), sono poi apparse in L’abominevole donna delle nevi e altre commedie (1982). Nel 1975, W. chiese la cittadinanza italiana. Con decreto del Capo dello Stato, gli venne concessa post mortem il 4 aprile 1979.
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Testi selezionati da Poesie (Adelphi, 1980)