OCTAVIO PAZ
Poesie scelte
Nuovo volto
La notte cancella notti sul tuo volto,
sparge unguenti sulle tue palpebre secche,
brucia sulla tua fronte il pensiero
e oltre il pensiero la memoria.
Fra le ombre che ti annegano
su un altro volto albeggia.
E sento che al mio fianco
non sei tu la dormiente,
ma la bimba che sei stata
e che attendeva solo che dormissi
per tornare e conoscermi.
Fiaba
A Álvaro Mutis
Età di fuoco e d’aria
Infanzie d’acqua
Dal verde al giallo
Dal giallo al rosso
Dal sogno alla veglia
Dal desiderio all’atto
Solo si dava un passo che tu facevi senza sforzo
Gli insetti erano gioielli animati
Il calore riposava al bordo dello stagno
La pioggia era un salice dai capelli sciolti
Nel palmo della tua mano cresceva un albero
Quell’albero cantava rideva e profetizzava
I suoi vaticini coprivano d’ali lo spazio
C’erano miracoli semplici chiamati uccelli
Tutto era di tutti
Tutti erano tutto
C’era solo una parola immensa e senza rovescio
Parola come un sole
Un giorno si ruppe in frammenti minuscoli
Sono le parole del linguaggio che parliamo
Frammenti che mai si uniranno
Specchi rotti dove il mondo si guarda infranto.
***
vado per il tuo corpo come per il mondo,
il tuo ventre è una piazza assolata,
i tuoi seni due chiese dove officia
il sangue i suoi misteri paralleli,
i miei sguardi ti coprono come edera,
sei una città che il mare assedia,
una muraglia che la luce divide
in due metà color pesca,
una landa di sale, rocce e uccelli
sotto la legge del mezzogiorno assorto,
vestita del colore dei miei desideri
come il mio pensiero vai nuda,
vado per i tuoi occhi come per l’acqua,
le tigri bevono sonno in quegli occhi,
il colibrì si brucia in quelle fiamme,
vado per tua fronte come per la luna,
come la nube per il tuo pensiero,
vado per il tuo ventre come per i tuoi sogni,
la tua gonna di mais ondeggia e canta,
la tua gonna di cristallo, la tua gonna d’acqua,
le tue labbra, i tuoi capelli, i tuoi sguardi,
tutta la notte piovi, tutto il giorno
apri il mio petto con le tue dita d’acqua,
chiudi i miei occhi con la tua bocca d’acqua,
sopra le mie ossa piovi, nel mio petto
affonda radici d’acqua un albero liquido
***
non c’è nulla in me se non una lunga ferita,
un vuoto che nessuno più percorre,
presente senza finestre, pensiero
che torna, si ripete, si riflette
e si perde nella sua stessa trasparenza,
coscienza attraversata da un occhio
che si guarda guardarsi fino ad annegare
di chiarore:
***
voglio proseguire, andare oltre, e non posso:
si è librato l’istante in un altro e un altro ancora,
ho dormito sonni di pietra che non sogna
e alla fine degli anni come pietre
ho udito cantare il mio sangue imprigionato,
con un rumore di luce il mare cantava,
una a una cedevano le mura,
tutte le porte crollavano
e il sole saccheggiava la mia fronte,
staccava le mie palpebre chiuse,
scioglieva il mio essere dal suo involto,
mi strappava da me, mi separava
dal mio bruto dormire secoli di pietra
e la sua magia di specchi resuscitava
un salice di cristallo, un pioppo d’acqua,
un alto zampillìo che il vento arcua,
un albero ben piantato ma danzante,
un camminare di fiume che si curva,
avanza, retrocede, fa una svolta
e arriva sempre:
Pilastri
And whilst our souls negotiate there
We like sepulchral statues lay...
John Donne
La piazza è minuscola.
Quattro muri lebbrosi,
una fonte senz’acqua,
due panche di cemento
e frassini stenti.
Il fragore, remoto,
di fiumi cittadini.
Indecisa ed enorme,
ruota la notte e cancella
gravi architetture.
Hanno già acceso i lampioni.
Nei golfi d’ombra,
agli angoli e dalle porte,
sgorgano colonne vive
e immobili: coppie.
Allacciate e quiete,
intrecciano mormorii:
pilastri di palpiti.
Nell’altro emisfero
la notte è femminile,
abbondante e acquatica.
Ci sono isole che fiammeggiano
nelle acque del cielo.
Le foglie del banano
rendono verde l’ombra.
A metà dello spazio
siamo ormai, allacciati,
un albero che respira.
I nostri corpi si coprono
di un’edera di sillabe.
Fogliami di rumori,
insonnia dei grilli
nell’erba addormentata,
le stelle si immergono
in una pozzanghera di rane,
l’estate accumula
lassù in alto i suoi orci,
con mani invisibili
l’aria apre una porta.
La tua fronte è la terrazza
che preferisce la luna.
L’istante è immenso,
il mondo è ormai piccolo.
Io mi perdo nei tuoi occhi
e perdendomi ti guardo
nei miei occhi perduta.
Si sono bruciati i nomi,
i nostri corpi sono scomparsi.
Siamo nel centro
calamitato di dove?
Immobili coppie
in un parco del Messico
o in un giardino dell’Asia:
sotto stelle diverse
quotidiane eucaristie.
Attraverso la scala del tatto
scendiamo ascendiamo
all’alto del basso,
regno delle radici,
repubblica delle ali.
I corpi annodati
sono Il libro dell’anima:
con gli occhi chiusi,
con il mio tatto e la mia lingua,
sillabo nel tuo corpo
la scrittura del mondo.
Un sapere senza più nomi:
il sapore di questa terra.
Breve luce sufficiente
che illumina e ci acceca
come l’improvviso sgorgare
della spiga e del seme.
Tra la fine e l’inizio
un istante senza tempo
fragile arco di sangue,
ponte sopra il vuoto.
Nell’intrecciarsi i corpi
un lampo scolpiscono.
***
Le parole sono ponti.
Sono anche trappole, gabbie, pozzi.
Io ti parlo: tu non mi ascolti.
Non parlo con te:
parlo con una parola.
Quella parola sei tu,
quella parola
ti conduce da te stessa a te stessa.
La formammo tu, io, il destino.
La donna che sei
è la donna a cui parlo:
queste parole sono il tuo specchio,
sei te stessa e l’eco del tuo nome.
Anch’io,
parlandoti,
divento un mormorìo,
aria e parole, un soffio,
un fantasma che nasce da queste lettere.
Le parole sono ponti:
l’ombra delle colline di Meknès
su un campo di girasoli estatici
è un golfo viola.
Sono le tre del pomeriggio,
hai nove anni e ti sei addormentato
fra le braccia fresche della bionda mimosa.
Innamorato della geometria
uno sparviero disegna un cerchio.
Trema all’orizzonte
la mole rame delle colline.
Fra rupi vertiginose
i cupi bianchi di un villaggio.
Una colonna di fumo sale dalla pianura
e a poco a poco si dissipa, aria nell’aria,
come il canto del muezzin
che perfora il silenzio, ascende e fiorisce
in un altro silenzio.
Sole immobile,
immenso spazio di ali aperte;
sopra pianure di riflessi
la sete innalza minareti trasparenti.
Tu non sei addormentata né sveglia:
tu fluttui in un tempo senza ore.
Un soffio appena suscita
remoti paesi di menta e sorgenti.
Lasciati portare da queste parole
verso te stessa.
Octavio Paz nacque a Città del Messico nel 1914 e ivi morì nel 1998. Dopo l’esordio con la raccolta Luna silvestre (1933), fu tra i fondatori, assieme ad altri intellettuali messicani, della rivista «Taller» (1938-41). Soggiornò a lungo all’estero (in Spagna durante la guerra civile, negli USA, in Francia, in Giappone e in India), spesso ricoprendo incarichi diplomatici, aprendosi agli influssi di altre tradizioni letterarie (surrealismo francese, haikai giapponese, ecc.), come testimonia la sua attività di traduttore (Bashō, W. B. Yeats, ecc.). Ambasciatore in India, si dimise nel 1968 per protesta contro il massacro degli studenti a Città di Messico in occasione delle Olimpiadi. Iniziò allora l’insegnamento universitario, con la cattedra di poesia dapprima a Oxford poi in varie università degli Stati Uniti. Ottenne, tra gli altri riconoscimenti, il Premio Cervantes nel 1981 e il Premio Nobel per la Letteratura nel 1990.
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Testi selezionati da Il fuoco di ogni giorno (trad. di E. Franco, Garzanti, 1992)