Recensioni
SILVIA BRE,
“LE CAMPANE”
(EINAUDI, 2022)
di Davide Toffoli
Le campane di Silvia Bre sono forma e fonte di un suono che anticipa e sopravvive al lettore, di una musicalità ancestrale, o archetipica, che rimanda inevitabilmente all’assenza. A tal proposito, su «Il Manifesto», Sara De Simone fornisce alcune interessanti considerazioni: ci ricorda, infatti, che «esistono poeti la cui forza espressiva è tanto grande da somigliare al silenzio». «Chi prova a definire il mistero lo perde, chi inchioda un senso al suono lo fraintende. Ogni poeta ce lo insegna: si ama la poesia se si accetta di non capirla fino in fondo».
Quella della Bre è una rivoluzione necessaria che pone al centro l’ascolto e invita a restare sempre con l’orecchio teso verso le vibrazioni, la voce degli altri, dell’Altro. Operazione da consumarsi, in segretezza, anche con gli occhi.
Qualche anno fa, Giovanna Amato parlava appunto di testi «dall’occhio spalancato, e in cerca di un ascolto che li attivi». Ciò può avvenire grazie a un’immagine: quella primordiale delle pitture rupestri (peraltro ricorrente in molta poesia contemporanea – si pensi a quelle di Lascaux di Maria Grazia Calandrone e alle sagome delle mani degli uomini del Neolitico di Maria Borio). In questo caso ci troviamo nella preistoria acustica delle grotte di Chauvet e del toro che ‘vibra’ in quanto potenza atavica. «Il ritmo innato vaga prima / della vita». È l’origine, dunque, la sfida da affrontare:
Noi
ci industriamo, ma siamo senza voce
verso lei,
senza più armi
come le stelle contro il loro buio
in pace
dentro una differenza che uguaglia
la parte per il nulla.
Dall’origine si passa alla prospettiva con la citazione dantesca dal Canto XXXIII del Paradiso («Un punto solo m’è maggior letargo») che porta a un fine altissimo, al cospetto della Luce. Luce quale fonte primaria di movimento e vita, da cui gli animali prendono forma nel disegno «come i gesti delle fate / e dei maghi». Si prende coscienza, forse, che discendiamo da quei segni – e dall’immortalità di certe parole – quando scopriamo di «Essere stati il futuro di qualcuno».
La lingua poetica della Bre lavora puntando dritto alla sostanza delle cose. È, la sua, una ricerca di connessioni silenziose e di baleni di senso che, dilatandosi, danno l’illusione dell’eterno. Le campane sono voce del cosmo, urlo del cielo, tentativo di legare (nell’intensità dell’attimo affiorante dal suono) la parte al tutto:
qualcuno dovrà infilarsi intero
nel frattempo, e essere
questa grande imminenza
maturata con tanta passione
perché lei rimanga.
C’è il persistere ostinato di un sottofondo, una sorta di rumore bianco. Tornano ad attivarsi l’ascolto e il nudo potere degli occhi di fronte a La nave negriera di William Turner, che oscilla di dolore nella tela così come nel testo della poetessa, che invita alla morte per acqua, in compagnia di quei 142 schiavi gettati in mare per alleggerire il carico. E proprio il ruolo di chi scrive risulta qui delicato, composto e quasi anonimo («Non sono mai nessuno i poeti – / nel vuoto dell’amore, dai vuoti di memoria / pugnalano in lingue il lontano. / Poi l’aurora»).
Specchiarsi nelle parole della Bre è un’esperienza rilevante: l’esperienza di un accordo tra il canto del poeta e le armonie (e disarmonie) del mondo. «Nel suono d’oro si dibatte la realtà / martella le tempie andandosene / tra le campane che si slegano in mondi / e chi prova a fermarle perde, perde / l’elusione scintillante che detengono». Il suono come lingua del buio, come nebbia che bracca il fiato. La voce delle campane continua a battere «contro la forma» fino a eclissarsi «nell’ignoto di una frase», «rintocca dall’aldilà la sua tortura / in chi rimane e vede ciò che sente, un ghiaccio / dove giacciono senza cantare le gole dei nati».
Sempre più frequente nell’avanzare del libro, emerge un profondo senso di morte. L’animale è spiazzato. «La strada gli sfa le ossa intanto / nel mare delle stelle». S’affaccia sospeso un desiderio di quiete e il tono si fa più lugubre, lasciandoci al cospetto del mistero, armati della sola parola.
***
William Turner, la nave negriera
Avevamo pensato bastasse essere vivi
alta tra le mani mulinanti l’ambizione incendiaria
pensavamo che quel nuotare vivi bastasse
a entrare nelle menti, essere visti
nero fiore dell’acqua nella notte, nello sciame di onde,
orde, eserciti di mare contro paia d’occhi pronti
a sparire, entrare a corpo morto nel nero delle menti
di bianco solo il bianco dell’occhio. Nessuno mai
riposa in pace sul fondo di menti senza pace
il vostro eterno il nostro
la perla dell’occhio svuotato dai pesci
cinque metri più sotto.
***
Da qui si scorge la belva che esiste per sparire
e guarda in verticale, riempie di salti, di verbo
il frammezzo tra sole e terra, la cogli nell’arco siderale
che è l’amore sfinito per i giorni,
nell’opera che resta inconclusa a fissare l’eterno.
***
Nell’isola che è di ombra e ti denuda, e bacia
le tue mani invase dal musico disegno della forma
e ti abita se avanzi tra le lame stupida
nella luce di marzo, lascia anche quello che non hai
sulla soglia etrusca, il feroce desiderio invoca,
tieniti pronta.
*
Fotografia © Arthur Tress
08/03/2022