di Federico Migliorati
Se qualcuna delle mie povere parole
ti piace
e tu me lo dici
sia pur solo con gli occhi
io mi spalanco
in un riso beato
ma tremo
come una mamma piccola giovane
che perfino arrossisce
se un passante le dice
che il suo bambino è bello.
Ci sono esistenze inestricabilmente legate alla scrittura, quasi un tutt’uno che non presenta cesure, slogature, iati. E nel momento in cui qualcosa si incrina nell’esperienza letteraria, artistica più in generale, ecco che il crinale della vita si fa arduo finendo per apparire uno scoglio insormontabile e comportando, talvolta, un’irrimediabile, prematura fine, l’emblema e la certificazione personale di un fallimento. Che sia questo il percorso intrapreso da Antonia Pozzi, poetessa spentasi a soli 26 anni all’alba di una tregenda che stava per abbracciare e stritolare mortalmente l’Europa? Sembra opportuno, per rispondere a questa domanda, inoltrarsi lungo il cammino che lei stessa ha compiuto, tra accese rivelazioni, entusiasmi vitali, angosce e cadute, amicizie ricercate e amori mai pienamente compiuti.
Di nobili origini per parte materna, la Pozzi cresce nell’agiato ambiente milanese dilettandosi fin da giovanissima con i versi: si lega in stima e amicizia ad alcuni dei protagonisti del Secondo Novecento, Sereni su tutti tanto da parlare e rivolgersi a lui come a un fratello, entrambi peraltro allievi di quell’Antonio Banfi con il quale si laureeranno l’una con una tesi sulla formazione letteraria di Flaubert (che ritroveremo a breve) l’altro su Guido Gozzano scomparso solo vent’anni prima.
Viaggia molto, stringe amicizie, si fortifica nella conoscenza. Per Pozzi la poesia, soprattutto durante gli studi universitari, si fa materia di vita, ardente sigillo delle proprie emozioni, ma anche molto di più: in essa lei sublima sé stessa specialmente quando decide di abbandonare il mondo della ricchezza in cui era cresciuta per mettersi dalla parte dei poveri, dei derelitti, per respirare l’odore della sofferenza, per ‘ricominciare’, studiando il dialetto, insomma ripartendo da zero per guardare altrove, oltre il suo passato. Sempre, tuttavia, con il verso ad accompagnare i giorni: «Vivo della poesia come le vene vivono del sangue» è una frase che scrive all’amico poeta trentino Tullio Gadenz, morto anch’egli in giovane età a soli 35 anni.
La poesia assume così una funzione catartica, come lei stessa afferma, una scelta di purificazione dalle impurità che la vita ci getta addosso. Nella stessa missiva la Pozzi ha ben chiara la propria destinazione: «Perdersi, superare il proprio piccolo io nella fatica sacra di creare parole che dicano l’amore, il dolore, la vita e la morte dei nostri fratelli uomini», in questo senso molto vicino a quel Cassola, più giovane di lei di soli cinque anni, che restava in ascolto del «rumore continuo della vita».
Per lei, dunque, la scrittura può dire tutto, anzi, la scrittura è il tutto, è vita sublimata, oltre ogni umana debolezza, è follia quotidiana da ricercare per superare il quotidiano. Ma la Pozzi è anche un’anima incerta, dubbiosa, insicura: ricerca costantemente l’affermazione di sé tramite la stima e il sostegno degli altri, priva dei quali cade in depressione, e tutto le sembra così inutile, evanescente, effimero. È in continua evoluzione, come il ‘suo’ Flaubert: «Molto è da rifare, e mi sto rifacendo anch’io»: non è mai soddisfatta della propria opera, abbisogna di un imprimatur, che sia il docente universitario di cui segue le lezioni, e a cui mostra alcune delle sue produzioni, o l’amico che le dona la propria attenzione. Dipende, in qualche misura, dagli altri in un continuo gioco, suo malgrado, di attese e scontentezze. Vive la scomparsa di persone care, una su tutti Gianluigi Manzi di cui scrive al ‘fratello’ Sereni – quasi un grido di dolore che la pervade, ma anche un invito alla speranza: «con te ho vissuto la morte del povero Gianni, una sera abbiamo cullato in un treno domenicale le nostre malinconie simili e diverse», «Io non devo morire, perché la mamma, sentendo il tonfo del mio corpo sulla terrazza del piano terreno, griderebbe ‘cosa c’è’, si affaccerebbe e la porterebbero morta anche lei nel suo letto. Io sono una donna, ma devo essere più forte del povero Manzi che si è ammazzato per una ragione uguale alla mia».
Un suicidio tra i diversi che in quegli anni funestarono il mondo della letteratura, come accadde anche a Remo Cantoni, filosofo e tra le menti più brillanti ‘allevate’ da Banfi, di cui la Pozzi si innamorò senza però essere corrisposta, una condizione sentimentale che la porterà a vergare epistole di indicibile sofferenza, «ferma in questa pausa di solitudine», in cui arriva a sostenere che «difficilmente la vita reale mi avrà e se mi avrà sarà la fine di tutto quello che c’è di meno banale in me».
Quando decide di chiudere anzitempo il proprio passaggio terreno, pochi mesi prima di annunciare di aver «cominciato a vivere sul serio», dà forma a una lettera intrisa di desolazione umana, una sorta di condanna della solitudine vissuta poiché priva di quell’amore unico, grande, vero, di quell’affetto forte e intramontabile in cui lei sperava e che non giunse mai. Fragilità psicologiche, dramma esistenziale, tormento interiore interruppero troppo presto la prolifica penna, ‘in limine’ di quel romanzo sulla storia della Lombardia cui attese inutilmente e che non vedrà mai la luce così come ‘in limine’ rimase la sua esperienza religiosa, mai pienamente realizzata e concretizzatasi e che, forse, l’avrebbe aiutata a superare il travaglio dei giorni. Flaubertiana, fino all’ultimo giorno: prendere o lasciare, nella letteratura come nella vita.
Non avere un Dio
non avere una tomba
non avere nulla di fermo
ma solo cose vive che sfuggono –
essere senza ieri
essere senza domani
ed acciecarsi nel nulla –
– aiuto –
per la miseria
che non ha fine –
09/11/2021