di Federico Migliorati
Su Giaime Pintor (1919-1943) molto si è finora scritto, ma altrettanto si potrebbe ancora dire. Parliamo di un autore prolifico che ad onta dell’età (scompare a soli 24 anni ucciso da una mina nel piccolo comune molisano di Castelnuovo al Volturno) non si è mai sottratto al dibattito civile e intellettuale sino agli ultimi giorni della sua esistenza, attirandosi inimicizie per le sue posizioni non conformi a certa intellighenzia che per decenni ha dettato legge. Ed è il caso di partire proprio dalla fine, da quel suo ‘testamento’ in forma di lettera, così lucido, tremendamente ‘adulto’ se intendiamo con tale termine la capacità di penetrare nel significato dell’esistenza esplorandone anche le sfaccettature più nascoste, e oseremmo dire anche alto ed eroico, sopra il comune sentire soprattutto di quella ‘maggioranza grigia’ con cui uno storico definì la massa popolare ai tempi del regime fascista, prona al silenzio.
Nella sua lettera all’amato fratello Luigi, futuro fondatore e direttore del Manifesto, Giaime focalizza tutto il suo sostrato culturale, ciò che l’aveva mosso fin dagli esordi nel campo letterario, la sua spinta ideale verso l’azione in quella strenua difesa dei valori democratici che portarono Calvino a definirlo, con efficace espressione, «un capo generazione postumo» per il risalto della figura e la congerie di stimoli che anche post mortem continuò a sorgere dallo studio del suo pensiero. Un accurato lavoro di Mirella Serri apparso qualche anno fa entra nella storia di questo protagonista del primo Novecento con uno scavo nel suo percorso di intellettuale lontano da ogni schematismo o dogmatismo, certamente non ‘facile’ da etichettare o ingabbiare in qualche movimento o ideologia.
Fu fiero antifascista, certo, ma è vero che passò attraverso le forche caudine di processi spesso sommari da parte dei portatori di verità assolute, soprattutto per quella sua presenza agli incontri promossi tra il 1941 e il 1942 – in piena seconda guerra mondiale e con il nazismo che sfondò fino nella profonda Unione Sovietica – dal regime hitleriano e in particolare dal ministro della Propaganda Goebbels con l’obiettivo di creare una sorta di associazione degli scrittori europei che potesse costituire una sponda importante, nell’ambito culturale, al Terzo Reich.
Pintor non rinnegò mai la sua attenzione e il suo amore per la Germania: ciò gli derivava in misura precipua dall’essere uno dei massimi traduttori e cultori di Rainer Maria Rilke, ‘fama’ riconosciutagli da poeti e critici che lo seguirono, due su tutti: Franco Fortini e Pier Vincenzo Mengaldo. Il primo, in particolare, definì le sue traduzioni «le più schiette; o per meglio dire, quelle che con maggiore fortuna artistica testimoniano del momento di incontro e della influenza di Rilke sulla nostra poesia, serbando a noi la voce seconda del loro traduttore». Quanto a Mengaldo, evidente risalto egli diede a Pintor inserendo le sue versioni dal tedesco nell’ampio e corposo Poeti italiani del Novecento e andando così a confermare il ruolo svolto dall’operazione pintoriana quale gesto poetico a sé stante, ‘capace’ di confrontarsi su un piano qualitativo con la più significativa tradizione italiana del Novecento, apertosi con i Decadenti Pascoli e D’Annunzio. I critici più acuti hanno enucleato nel suo verso una spiccata vena lirica che ha trovato forma più matura e compiuta nelle traduzioni, dove emergono stilemi caratteristici dell’Ermetismo e una particolare predilezione per certi modi ricollegabili tanto a Quasimodo quanto a Gatto:
Sulla via assolata, dentro al vecchio
tronco cavo che da lungo tempo
serve a bere e piano in sé rinnova
uno specchio d’acqua, la mia sete
calmo: l’acqua limpida e il suo flusso
prendo in me nel cavo della mano.
Bere è troppo, è un atto che tradisce,
mentre questo gesto in cui mi indugio
porta un’acqua chiara alla coscienza.
E così potrebbe riposarmi
se tu fossi qui, posare piano
la mia mano sulla fresca curva
della spalla o al limite del seno.
Sempre Mengaldo porta a merito di Pintor le «poche e splendide traduzioni del grande Trakl»:
La sera, se andiamo per oscure vie,
smorte ci incontrano le nostre ombre.
Ora chi ha sete
beva le bianche acque dello stagno,
dolci i lamenti della nostra infanzia.
Morti in riposo sotto il folto sambuco
guardiamo grigi gabbiani.
Nubi primaverili coprono la città buia
che tace i tempi di monaci eletti.
Quando io presi la tua mano esile
battesti piano gli occhi rotondi:
ora è perduto.
Ma se una buia armonia penetra l’anima
appari tu bianca ai paesi autunnali del cuore.
Se però ritorniamo al discorso introdotto più sopra ci appare opportuno richiamare le memorie contenute nel diario della primissima giovinezza che possono aiutare a inquadrare il futuro adulto pronto a imbracciare le armi per riconquistare all’Italia la libertà conculcata: «Nel dischiudere il primo periodo della mia vita – scrive quasi con distacco – sono tentato di levare una voce di protesta contro la comune ed esagerata lode della felicità dei nostri anni fanciulleschi così spesso ripetuta con tanta ostentazione da ognuno. Io non ho mai conosciuto questa felicità, non ho mai rimpianto quel tempo».
Per Pintor, consapevole che il dolore è connaturato all’esistenza umana, non sono «doti principali» quelle dell’eterna spensieratezza e della «gioconda vivacità»: è una maturità già in nuce di cui dà prova con notevole lucidità e che ci fa capire la sua costante attenzione all’ambito culturale, al ruolo dell’intellettuale nella società, al percorso da intraprendere in un’Europa in preda prima a borborigmi ideologici e successivamente alla concretizzazione delle nefaste azioni del nazismo.
Con grande capacità di osservarsi da fuori, aspetto che richiama un altro principe della letteratura del Novecento, il quasi coetaneo Giorgio Bassani, Pintor comprese come la partecipazione alla guerra potesse e dovesse rappresentare uno spartiacque, una cesura netta tra il prima e il dopo, in cui il prima lo vide intellettuale interessato esclusivamente ad ambiti letterari.
Siamo lontani, va da sé, dalla concezione del conflitto bellico quale «sola igiene del mondo», certo è che entrare nella carne viva di una lotta cruenta, sporcarsi le mani, rischiare la propria esistenza non possono che forgiare e cambiare definitivamente l’essere umano, scrittore o meno che sia. Egli lo comprese benissimo arrivando a parlare di «moti turbinanti come trombe marine» che sono in grado di «strappare l’individuo dal suo tavolo e di trascinarlo in aria». La sua giovane vita troncata anzitempo ci ha privato di una sapienza diffusa, di una conoscenza ancora più ampia, di una mente illuminante e vorace di storia e di storie eppure, come si è detto nell’incipit di questa nota, di e su Pintor non si è mai terminato di argomentare e la sua scrittura ancora ci può fornire spunti illuminanti e preziosi, se saremo attenti a coglierne la quintessenza con tutta la cura che una simile opera merita.
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Fotografia © Irwin Klein
06/04/2021