di Federico Migliorati
Lascia che io dica
è una donna forte e bella
pesciolini blu sono i suoi orci
e sono i suoi svestiti abiti
lei sa amarti con la carne
nelle canzoni popolari da tempo ti ama
Guardando in alto in basso
talvolta ne accarezzi il corpo
seduto sul tronco la baci
ogni foglia è le sue labbra
ma non la vedi
come sempre tu non la vedi
ma lei da lontano ancora t’ama.
Esistono donne e uomini di cultura che entrano di diritto nell’Olimpo della celebrità poco dopo la dipartita: la loro produzione, unita talvolta a una vita insoddisfatta e incompiuta e a una morte ‘scelta’ e dirompente, li consacra a imperitura memoria.
Haizi è un caso illuminante almeno per quanti frequentano con assiduità i territori spesso impervi e oscuri della poesia. Quando nel marzo del 1989, poche settimane prima dell’orrenda strage di Tienanmen a Pechino, decide di suicidarsi all’età di 25 anni attendendo l’arrivo del treno sui binari, nessuno ne avrebbe parlato come di un ‘uomo felice’, per usare l’espressione che dà il titolo alla sua raccolta.
Nato nel 1964 nella provincia di Anhui, Zha Haisheng (che userà lo pseudonimo di Haizi) proviene da un’umile famiglia di contadini: dopo gli studi all’università della capitale cinese, nella quale entra all’età di soli quindici anni e dove si laurea in Scienze politiche, si affaccia sul genere della poesia senza le incrostazioni tipiche della generazione, di poco precedente la sua, che fu figlia della Rivoluzione culturale maoista degli anni Sessanta.
Haizi entra nella storia per quella sfida lanciata all’esistenza e a quella società che aveva fortemente denunciato, in cui non si sentiva inserito: così si era posto ai margini, ai lati del fiume che scorre e presso il quale trovava sempre meno senso e sempre più irrisione.
Non siamo di fronte a un fenomeno inedito nel mondo letterario, di protagonisti cioè che scelgono l’esilio dalla vita per significare e testimoniare una cesura con il qui e ora, l’estremo sacrificio che è altresì una ricerca di notorietà ‘mancata’ (da più parti e in plurimi casi si è ricorsi a un paragone con il maudit Rimbaud). Haizi, tuttavia, assurge quasi a elemento distintivo, a qualcosa d’altro rispetto a una vicenda pur sconvolgente: nel suo caso assistiamo a una sorta di nemesi che si compie pure nei confronti della critica silente e/o negativa del tempo. Diventa, di fatto, un autore letto, discusso, confrontato con i maggiori del passato, criticato, oggetto di studi, tanto da assurgere a uno dei massimi poeti cinesi contemporanei.
Dall’Estremo Oriente all’Occidente, i suoi testi acquisiscono, a oltre trent’anni di distanza dalla morte, un significato vieppiù cristallino e terso, icona e paradigma di un percorso breve ma sufficiente per valergli la fama, tra classicità e attualità.
Un lavoro prezioso è stato compiuto per la prima volta dalla casa editrice Del Vecchio che ha dato alle stampe la raccolta completa dei suoi versi (ottimamente tradotti da Francesco De Luca). Un universo frastagliato, fatto di canzoni popolari d’amore, di «mezza poesia», di immedesimazione con gli elementi naturali, di variegati richiami ad antiche filosofie. Una scrittura debordante sviluppata nell’arco di soli sei anni in cui l’accento politico è pressoché assente. Ed è proprio la scrittura a sostenerlo, malgrado tutto, nel calvario dell’età, in quel limitare di gioventù che gli aveva creato nocumento e patimenti psicologici, pressioni insormontabili dalle quali decise di liberarsi una volta per sempre. Scrivere era diventato la sola fonte di una qualche felicità, insieme a pochi amici fidati.
Nella sua produzione possiamo rintracciare quel ‘male di vivere’ che si è portato via poeti, scrittori, artisti: «Io e il passato / dividiamo una terra nera / io e il futuro / dividiamo un’aria senza suono», recita una sua strofa. E ancora: «Quelle sabbie mobili della percezione / che si precipitano a diventare una pazza burrasca»; «Senza alcun perdono e tenerezza, / l’autunno si appresta», a indicare l’ormai spento élan vital.
In Haizi nulla è per sempre, anzi si è spesso attesi a una caduta, a un precipizio, a un declivio. È un linguaggio stilisticamente semplice, in grado tuttavia di recare un contenuto essenziale ed efficace al lettore e di trasportarlo in quello spazio di difficoltà che l’autore si è trovato ad affrontare. Come sosteneva Bufalino, «la vita è uno squarcio di luce che la morte, come una cerniera lampo, fulmineamente chiude»: così è stato per quest’incisivo protagonista della cultura della seconda metà del Novecento che si chiedeva «perché voglio volare», in un naturale anelito alla libertà che ha permeato la sua breve esistenza.
Le stelle e i natii armenti
come splendidi rivoli di acqua bianca
corrono via
cerbiatti corrono via
mentre gli occhi della notte seguono stretti
Sulla radura ariosa scopro la prima pianta
i piedi entrano in terra
non si possono più estrarre
ecco, quei fiori solitari
sono le perdute labbra della primavera
i nostri giorni
lasciano ferite sul volto
perché per noi non c’è altro che possa darci testimonianza
io e il passato
dividiamo una terra nera
io e il futuro
dividiamo un’aria senza suono
Ho intenzione di vendere tutto
qualcuno faccia il prezzo
tranne l’esca e gli strumenti da fuoco
tranne gli occhi
occhi da voi picchiati a sangue.
*
Fotografia © Issei Suda
18/01/2023